Parlare di scuola della Costituzione come antidoto alla società mafiogena della disuguaglianza, oggi, per chi vive in Calabria è un imperativo categorico. La storia dell’Italia repubblicana inizia con la promulgazione della Costituzione. Poi nel 1992, a Capaci prima e a via d’Amelio dopo, moriva un pezzo di questo Stato. Era il trionfo della barbarie. Era la sconfitta di uno Stato che aveva perso la sua eticità. Così mentre i palermitani urlavano «Fuori la mafia dallo stato» e Caponnetto ripeteva che la luce si era spenta, da quel buio ci siamo lasciati inghiottire ed abbiamo imborghesito e ritualizzato pure il ricordo. Come sempre accade in un sistema di dominio. Eppure è un dovere etico nel Paese delle massonerie deviate fare opera di resistenza. Resistere è una prassi pedagogica, rispetto alla quale occorre spogliarci da una certa bigiotteria intellettuale. Occorre darsi degli imperativi, rifondare un’etica, una morale, partendo dalla propria terra. Occorre che gli intellettuali si assumano le loro responsabilità e, invece, diceva già Pasolini nell’ultima intervista rilasciata a Furio Colombo, «sono soliti prendere l’orario ferroviario dell’anno scorso, o di dieci anni prima e poi dire: ma strano, ma questi due treni non passano di li, e come mai sono andati a fracassarsi in quel modo?», diventando il volto, vero, di un potere che è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori.
In Calabria, abbiamo accettato a capo chino la povertà di un sud relegato, ormai, dai ceti dominanti, ai margini di un sistema corrotto volto solo al mantenimento del proprio potere; accettiamo persino, quotidianamente, di essere privati di tutti quei diritti che fanno di un paese occidentale, un paese civile: il diritto alla mobilità, alla salute, tralasciando il diritto all’istruzione, divenuta oggi merce di poco conto nella società dell’utile immediato e massificato. E noi che abbiamo rinunciato ai nostri sogni e alle nostre speranze ci siamo ridotti a pensare che basti spezzare il termometro per non avere più la febbre. Rispetto a tutto questo resta un faro: la Costituzione. E forse proprio nella Costituzione potremo trovare le risposte, se sapremo porci le giuste domande, forse partendo da lì verrà un giorno, non molto lontano nel tempo, in cui davanti all’arroganza di dirigenti che rispondono solo al potere politico che li ha investiti e non alla comunità, dinanzi all’arroganza che diventa prepotenza, all’ignoranza che pretende di guidare la cultura, all’ingiustizia trasformata in legge, dinanzi alla sperequazione sociale avremo il coraggio, in un mondo che non ha più miti a cui guardare, di fare un atto di rifiuto. Ma il rifiuto richiede quel senso di responsabilità che sempre si accompagna ad una chiara presa di coscienza.
«Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. All’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti». Cominciava così l’attacco di uno dei reportage di guerra più famosi della storia che descriveva il massacro di due campi profughi palestinesi della periferia di Beirut. Era servito, scriveva Robert Fisk, un agente esterno, le mosche, per prendere coscienza della realtà.
In Calabria, periferia d’Italia e d’Europa, le mosche però non sono ancora arrivate. Non c’è consapevolezza. Qui per quanto possa sembrare paradossale non c’è altro se non la scuola, una trincea che insegna, troppo presto, cosa sia la disuguaglianza sociale. Il territorio offre poco. Molti studenti hanno problemi economici.
Secondo i dati emersi dal Rapporto del 2022 di Save the Children, “Alla ricerca del tempo perduto”, in Calabria il 60% degli studenti non raggiunge il livello di base delle competenze in italiano, mentre in matematica si sfiora il 70%. Analizzando i dati forniti dal Ministero dell’istruzione (oggi del Merito) sugli aspetti della qualità strutturale della scuola emerge una stretta correlazione fra offerta di tempi e servizi educativi e i livelli di apprendimento. Un esempio su tutti: la città di Crotone, che rientra fra le 10 province con il più alto tasso di dispersione implicita, fra le 10 province meno performanti in matematica, tra le province con la percentuale di studenti appartenenti al quintile socioeconomico più basso (superiore al 20%). Sempre in Calabria, dove secondo il report della Caritas del 2022 si registra una dispersione scolastica pari al 22,4 %, più del 60% delle scuole di primo grado non possiede un certificato di agibilità.
A ciò si aggiunga che, nella scuola primaria statale, su un totale di 5.360 classi solo 1.397 effettuano il tempo pieno. Per garantirlo in tutte le scuole del Paese servirebbero investimenti pari a 1 miliardo 445 milioni. Occorrerebbero per una istruzione “pubblica”, aggettivo che traduceva la funzione sociale della scuola. Perché imparare è un diritto, non un privilegio. Così mentre il premio Nobel James Heckman si interroga sui disastri della meritocrazia applicata ai sistemi educativi, noi su questo rifondiamo la nostra scuola, quella del Merito, dimenticando che “non c’è ingiustizia più grande quanto far parti uguali fra disuguali”. Le parole sono pietre diceva Carlo Levi. Chi ci governa ha giurato di osservare lealmente la Costituzione. Giuramento che impone il dovere di attuare l’art. 3 della Costituzione, in entrambi i commi. Vale anche per la scuola. Perché tutto questo ha delle ripercussioni, in un tempo che sembra ripetersi all’infinito.
Qui negli anni nulla è cambiato. Peppino Impastato a soli 19 anni, accanto a Danilo Dolci, aveva organizzato una marcia durata sei giorni attraverso i territori più difficili della Sicilia. In quella manifestazione si parlava di pace, di lavoro, di infrastrutture, di acqua e noi a Crotone sappiamo cosa significhi essere privati anche di questo diritto. I mali atavici del sud.
Fu una grande manifestazione popolare, scriverà lo stesso Peppino Impastato, il cui significato si doveva individuare in due punti essenziali: condanna aperta della attuale classe dirigente per l’inefficienza ormai lungamente dimostrata nel risolvere i problemi più urgenti e vitali dell’isola; ferma volontà di rompere con un mondo, con una maniera di condurre la cosa pubblica, tutte cose che puzzano di marcio.
Era il lontano 1967.Corre l’anno 2023. E nulla è cambiato. Ecco perché è un dovere etico, in una terra silente e indifferente, fatta di malversazioni e speculazioni praticarla la Costituzione e farlo a scuola. Sta tutta qui, credo, la dimensione della scelta, che permette di vedere la grandezza di un uomo quando è nella sua normale e naturale dimensione umana.
In un noto canto partigiano, “Fischia il vento” si dice “nella notte lo guidano lo stelle”. Per farsi guidare dalle stelle, è necessario, però, compiere un atto che diventa fondativo della propria dignità personale: alzare il capo. Solo da lì può nascere la disobbedienza rispetto ad un sistema. Perché nel paese delle stragi di stato, da Portella della ginestra a via d’Amelio passando per i fatti di Melissa, tenuto conto che la storia delle mafie è la storia dell’Italia, si fa cultura solo se si abbraccia un nuovo meridionalismo capace di soppiantare quella violenza di relazione messa al servizio di chi detiene il potere e propone affari come sempre avviene in una società a trazione capitalista. Serve una nuova etica che può nascere da una grammatica condivisa. È l’esempio di Lorenzo Milani e della sua etica della disobbedienza verso saperi e poteri costituiti. L’unica in grado di costruire un noi. Senza capacità di fare rete non c’è possibilità alcuna di cambiamento.
Soprattutto oggi che il liberismo e il capitalismo hanno fagocitato tutte le ideologie. E con loro è scomparso pure il pluralismo delle idee, soppiantate da un narcisismo che ha fatto del culto dell’io e dell’individualismo sfrenato la base stessa della sua essenza. E questo è quanto è accaduto anche in Calabria, terra asservita ormai alla deriva, orfana di punti di riferimento. Terra corrotta e malata. A questo, con la connivenza di tutti, è stata ridotta questa regione. E ora solo i calabresi possono salvarla. Ma una terra non si salva da sola. La libertà dall’oppressione è una conquista che si deve strappare agli oppressori. Perché gli ultimi hanno il diritto di ribellarsi e il dovere di resistere. Non si può più vivere sotto occupazione. E la scuola questo ha il dovere di insegnarlo.
Da qui nascono le nostre attività di cittadinanza attiva. Perchè la cultura è una pratica di libertà. E il cambiamento lo si costruisce solo attraverso scelte di responsabilità. Perché rispetto alle scelte fatte c’è sempre un pezzo da pagare e il prezzo lo pagano le nuove generazioni, quei ragazzi che, ancora non contaminati, il puzzo del compromesso lo avvertono.
Nel frattempo, noi, gli adulti, come in una sorta di mito edipico, eternamente rivissuto, siamo incapaci, come Laio, di cedere il passo. E allora la speranza è solo una. La stessa di sempre. Che le giovani generazioni insorgano e abbiamo loro il coraggio di compiere il parricidio, rovescino gli apparati di partito e spazzino via questo sistema malato e corrotto. Perché mentre ci si accapiglia in sterili polemiche c’è gente, fuori dal palazzo, in quella realtà che tutti si ostinano a non voler guardare, che stenta a mettere insieme il pranzo con la cena. E ci sono ragazzi a cui stiamo rubando anche la speranza di un futuro possibile.
È vero, il capitalismo ha vinto su tutti gli ismi. E lo ha fatto anche nella Calabria di Eni e dei call center, globalizzando la nostra indifferenza. E oggi che sappiamo che i guai, i nostri guai sono il prodotto di quella classe dirigente corrotta, incapace, impreparata e collusa che, spesso, ricicla falso meridionalismo al solo scopo di dotarsi di una linea culturale, è arrivato il momento di reagire.
Ripartire dal riconoscimento delle diverse condizioni della propria realtà e impegnarsi nella rimozione degli ostacoli reali, è il dovere principale di chiunque voglia rappresentare le istanze progressiste. Ma la nostra è la storia colpevole di chi con la connivenza dei calabresi, ha pensato esclusivamente al proprio tornaconto distruggendo, in modo indegno, il futuro di tutti. La Calabria, oggi, è una terra distrutta che non interessa, purtroppo, a nessuno se non a quella borghesia massonica che sulle sue sciagure ha lucrato e continua a lucrare. Facendo come chi è sempre pronto “a vender la carne loro essendo vivi”. E la carne è stata, è e sarà ancora una volta, la nostra.
La scrittura collettiva a cui abbiamo dato vita e che parte da attività di cittadinanza attiva è un tentativo di rivendicare diritti calpestati, provando a sovvertire l’ impianto di un sistema formativo ipercompetitivo e frustrante e di un consumismo sempre più precoce. Quello che il capitalismo imperante ha fatto ai nostri territori è imperdonabile, non sarà mai cancellato dalle pagine della storia, ammesso che qualcuno abbia ancora voglia di scrivere una storia dalla parte dei vinti, di “passare a contropelo la storia”, direbbe Benjamin.
Immersi nel Terzo Millennio non possiamo più fingere di non capire che questo sistema non sta più in piedi e che lo sterminio palese o velato dei deboli e degli ultimi rischia di non bastare più a mantenerlo vivo. Forse la storia umana è iniziata da una ribellione: che sia narrata come “peccato” o come curiosità non è così importante. Alle origini del nostro fragile essere uomini e donne c’è qualcuno o qualcuna che ha guardato al di là delle regole e della loro consuetudine, impadronendosi di un frutto che la paura faceva pensare irraggiungibile. Pensare allora diventa resistenziale, il pensiero porta a resistere e a desistere, ma sempre come frutto di una scelta che massimizza il bene nel mondo, il bene per tutti e per tutte, nessuno escluso. Questo l’intento di un processo educativo collettivo e disobbediente che dobbiamo provare a portare avanti. Perché serve una nuova consapevolezza.
In “Napoli milionaria” Eduardo offre una tazzina di caffè ad Amalia che accetta volentieri e guarda il marito con occhi interrogativi nei quali si legge una domanda angosciosa: «Come ci risaneremo? Gennaro intuisce e risponde con il suo tono di pronta saggezza. «S’ha da aspettà, Amà. Ha da passà a nuttata».
Passerà… Ecco, di tempo qui ne è passato anche troppo. Ora occorre ricominciare. Partendo da quella presa di coscienza che genera disobbedienza. Per costruire percorsi di speranza che consentano alle nuove generazioni di essere liberi “di”, non liberi “da” qualcosa, di scegliere se rimanere in una terra bellissima e si spera un giorno non più disgraziata.