Adolescenti, linee guida e luoghi comuni: i giovani sono già protagonisti del proprio futuro

Adolescenti, luoghi comuni: “non hanno valori”, “sono disinteressati”, “vivono isolati nei loro schermi”.  Stereotipi da adulti che, loro per primi, non alzano lo sguardo dai loro cellulari. I numeri raccontano un’altra storia, quella di una generazione che sta riscrivendo le regole del gioco. E i numeri sono sorprendenti: tra i ragazzi tra i 14 e i 17 anni, la partecipazione ad attività di volontariato e di impegno sociale sono in costante aumento, toccando quasi il 7% nel 2023. Un impegno che va controcorrente rispetto al calo generale e che sfida le narrazioni negative. Questi giovani, spesso incompresi, mostrano invece una vitalità e un desiderio di lasciare il segno, di costruire un futuro diverso, non scritto da altri.

Sono i due volti della stessa medaglia a dirlo. La prima faccia racconta che gli adulti non capiscono i ragazzi, dice il 54% degli adolescenti, concetto ribadito dal 45% dei genitori. L’ultima campagna “Non Sono Emergenza”, per affrontare il disagio degli adolescenti, racconta invece di un’altra fotografia, ben diversa. E che ribalta gli stereotipi, letture parziali, visioni superficiali non solo dell’opinione pubblica, ma ormai anche di una bella fetta di docenti e insegnanti, sui propri ragazzi. Una visione spesso deviante e che oscura l’aspetto propositivo delle nuove generazioni. La narrazione “altra” propone fiumi di dati e di buone pratiche. Dimensioni di un fenomeno e di un protagonismo delle nuove generazioni. Primo framework di questo film: i giovani fra i 14 e i 17 anni che hanno svolto attività gratuite in associazioni di volontariato sono passati dal 3,9% del 2021 al 6,4% del 2022, fino a sfiorare il 7% nel 2023. È l’unico gruppo di cittadini che mostra un aumento dell’impegno nelle varie forme di volontariato, in controtendenza con il resto della popolazione. In particolare anche rispetto a ragazze e ragazzi appena maggiorenni, quindi poco più grandi.
Iniziare da questi dati che smentiscano molti dei luoghi comuni che abbondano nel dibattito sulle giovani generazioni, è già un buon punto di partenza. In particolare per chi volesse iniziare ad analizzare i siano segnali di malessere e disagio. Ribaltare per una volta il modo di avvicinarsi e di relazionarsi non sarebbe forse così sbagliato: invece di partire, dandolo per scontato, che c’è un disagio e una mancanza di senso, ripartire dalle loro competenze e dalla vitalità di queste ragazze e ragazzi. Sensibilità che c’è e viene dimostrata. Vanno ascoltati. Anche perché “restano senza dubbio il patrimonio più importante” a disposizione della nostra scuola, delle nostre comunità, del nostro paese per il suo miglioramento e la sua crescita.


La campagna “Non Sono Emergenza”, mentre racconta questi numeri, sottolinea anche un dato altrettanto di valore: non solo questi giovani restano determinanti per le energie di cui sono naturalmente portatori. Ma rappresentano i protagonisti più ricchi di punti di vista del nuovo, sono i primi in grado di offrire nelle attività di tutti i giorni, nello studio, nel lavoro e nel sociale una visione di prospettiva diversa sul passato. Vogliono essere ascoltati perché vogliano lasciare un’impronta. E superare la convinzione che per loro il futuro non sia già scritto da altri e prevedibile. I temi sul tavolo di cui c’è bisogno di nuove visioni per costruire un futuro altro, sono veramente molti oggi. “L’avvenire non s racconta per sentito dire” spiega nel suo ultimo libro “Apologia del futuro”, Luca De Biase. “Immaginare le conseguenze di ciò che si fa nella vita quotidiana è una necessità vitale” spiega De Biase. Ma il vero passaggio che riguarda questi nuovi cittadini è la loro spinta a voler scrivere il proprio futuro invece di “lasciare ad altri questo compito, è una scelta di civiltà”.  
Non è un caso, poi, se questa ricchezza in termini di capacità visionaria di cui sono portatori naturalmente i giovani, sono anche fra le prime abilità che spesso in un colloquio di lavoro vengono sondate. Sono abilità fra le più richieste e apprezzate nel nuovo mondo delle imprese, su quel mercato dei lavori che sta cambiando, sotto il profilo delle competenze tecniche, molto velocemente, ma che resta fermo nel bisogno di inserire persone capaci di stare con altre persone e di consolidare un gruppo. La capacità di garantire contributi volontari è una di quelle abilità, oggi si chiamano soft skill (competenze trasversali) capaci di costruire e fare squadra non in astratto, ma perché capaci di ascoltare, confrontarsi, decidere democraticamente e insieme senza escludere l’opinione o l’apporto di nessuno. Sanno fare inclusione reale. E in questo senso mettono realmente le persone al centro di ogni azione.
Nel volontariato, i giovani contro gli adulti quindi? Non è proprio così, ma il dato dice che mentre l’impegno nell’ultimo biennio è calato sia tra la popolazione generale (dall’8,3% del 2022 al 7,8% del 2023)sia soprattutto tra i neomaggiorenni (-3 punti), gli adolescenti mostrano segnali in netta controtendenza.


Attività di volontariato, di messa a disposizione delle proprie competenze e tempo libero, non sono proprio una dimensione dell’impegno sociale così marginali. Fanno parte anche questi lati di un perimetro dentro cui si sta maturando un differente senso del lavoro e della vita. Insieme. Includendo appunto. La dimensione dell’inclusione, dell’integrazione, delle comunità di vita sembrano invece un lato del perimetro che le frettolose linee guida di Educazione civica emesse dal Ministero dell’Istruzione e del merito, voglia invece ridimensionare. Al Corriere della Sera, il ministro Valditara è stato chiaro: nelle linee guida “ci saranno i valori costituzionali a innervare tutti i  curricola, cioè i “programmi”. Pensiamo alla responsabilità individuale e non più solo sociale, come andava di moda nel passato scaricando le colpe individuali sulla collettività. O al riconoscimento dell’iniziativa economica privata, che serve a creare ricchezza e quindi a combattere la povertà, alla centralità del lavoro, come grande valore sociale. E poi la patria: l’appartenenza alla patria è un valore costituzionale, dà un’identità ed è decisiva oggi per costruire una società inclusiva”.
Varate in tempi record (le regole sono state bocciate dagli esperti del Consiglio superiore della pubblica istruzione che le hanno giudicate non necessarie, confuse, retoriche e «troppo prescrittive», ai limiti del dirigismo culturale),  la fretta per farle entrare in vigore subito, ha forse confuso un po’ i termini. Le nuove disposizioni – scrivono in un approfondimento Giovanna Fregonara e Orsola Riva – “mirano a far conoscere a tutti gli alunni, segnatamente a quelli stranieri, i «valori connessi all’appartenenza a un Paese che ha una sua storia, una sua cultura e una sua identità», insegnando fin dalle elementari origini e significato della bandiera italiana e dell’inno di Mameli e soffermandosi in particolare sul «concetto di Patria intesa come un valore costituzionale». In realtà, sottolineano le due giornaliste del Corriere della Sera, “sembra piuttosto un modo per dare a questi bambini e ragazzi una patente di italianità, continuando a negare loro il passaporto”.


C’è poi un secondo fronte che contrasta proprio con tutta quella fotografia di giovani alle prese con solidarietà e aiuto verso chi ne ha più bisogno. Affermare nelle linee guida che si debba “Conoscere il valore della legalità” sembra piuttosto negare o non voler vedere come il valore della legalità venga acquisito proprio attraverso la loro esperienza diretta, e il quotidiano valore del rispetto delle regole di convivenza nella propria comunità di vita. Ciò non toglie, come ha osservato Franca Da Re nel commento alle Linee Guida ministeriali che “l’educazione al comportamento corretto e rispettoso nella quotidianità come garanzia di una buona convivenza ci paiono scelte più oculate nella scuola primaria. La maturazione fin da piccoli di condotte sempre corrette – sottolinea Da Re – potrà contribuire a ridurre in età successive quei comportamenti di piccola e grande illegalità diffusa purtroppo presenti nelle nostre comunità. Una comunità tollerante verso le piccole illegalità è più vulnerabile, a nostro avviso, alle grandi illegalità”.

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