
Scuola, lavoro e dimensione sociale. Tre elementi della vita quotidiana che sono tornati se non al centro, di certo sotto una nuova attenzione. L’elemento che li tiene insieme è il tema “mondo giovanile”, se non altro per la valanga di numeri negativi e preoccupanti con cui si sta descrivendo questa categoria. Tre report sono appena stati pubblicati in quest’ultima settimana. Tutti per denunciare un’emergenza ampiamente conosciuta, anche se con statistiche nuove e ancora più dettagliate. Ma, forse per la prima volta, ci sono anche un paio di sorprese finali, i veri elementi nuovi in questo contesto di difficoltà.
I giovani sono chiusi, soli, preoccupati per crisi, lavoro e futuro. Sprofondano in un malessere diffuso, senza interessi, apparentemente, per alcun tema (Ricerca Noto Sondaggi per il Sole 24Ore). I giovani tornano a lasciare l’Italia (con una tremenda definizione, la famosa “fuga di cervelli”): oltre 100mila in un anno, ma non per questioni economiche (pagati poco): sono giovani emigrati per scelta o per necessità. (Fondazione Nord Est). Lavorare con giovani e adolescenti significa affrontare sfide sempre più complesse tra isolamento sociale, disagio psicologico e difficoltà relazionali. Ma spesso la mancanza di ascolto aumenta il livello dell’emergenza (Centro Studi Erickson).

Questo il quadro in sintesi. Le motivazioni, nella sostanza, sono le stesse per tutti e tre i report. Ma c’è un dato di novità da cui per una volta è importante far partire e mettere in relazione l’analisi delle tre indagini. Un dato con cui vengono sfatati almeno un paio di convinzioni comuni. E che aiutano a leggere il “solito” quadro di malessere, da un’altra direttrice. Non si vuole togliere rilevanza al resto del quadro. Ma l’incapacità di intercettare, raccogliere e valorizzare le risorse emotive e personali di molti giovani, sia a scuola sia nel mondo del lavoro, e spesso anche in attività civiche, sociali e associative, viene interpretato come il fattore causale dei tanti disagi che sondaggi e ricerche ci raccontano da anni.
La prima novità che emerge, quindi. I giovani non sono per niente apatici o disinteressati al mondo. Tutti, a prescindere dall’età, dimostrano di avere risorse e capacità inattese ma che spesso non vengono colte o raccolte perché non ascoltate o incapaci di ascoltarle: empatia, resilienza, spirito critico, iniziative propositive. “Spesso non hanno consapevolezza della qualità dei loro pensieri – spiega Franco Lorenzoni in un suo ultimo intervento -, se questi non vengono raccolti e restituiti da parte di noi adulti”. Don Milani probabilmente direbbe che manca “quel fare scuola che suggerisce l’epoca in cui si vive”, la strada capace di intercettare gli interessi (o disagi e sofferenze) partendo dal contesto di realtà dei ragazzi, creando aderenza alla loro cultura informale e da lì partire per costruire l’attenzione e il rapporto di ascolto e di fiducia.

Potremmo dire che oggi manca o non è ancora completata quella “pedagogia dell’ascolto” in cui nasce e vive il dialogo e cresce la fiducia, dice sempre Lorenzoni.
Lo sostengono anche le numerose testimonianze che si ascoltano o si leggono nei report dei docenti e formatori della Rete nazionale di scuole che hanno aderito al Movimento Barbiana 2040.
Nonostante le difficoltà il sondaggio restituisce un quadro anche positivo delle nuove generazioni. Questo succede quando viene soddisfatto il “bisogno di educazione alla parola” e quindi messi nelle condizioni di confrontarsi: il 60% di educatori e docenti sottolinea le capacità relazionali dei ragazzi, con un’attenzione crescente, verso l’ascolto e il dialogo. Tutta questa nuova dimensione apre una finestra sulle potenzialità spesso contenute di questo ragazzi: il 40% di loro evidenzia determinazione e resilienza, il 30% cita empatia e sensibilità. E ad almeno un altro quarto dei ragazzi viene riconosciuta un’altra qualità dagli educatori: dimostra apertura mentale e adattabilità.
L’allenamento delle proprie abilità poi fa la differenza nei risultati. E sulla seconda dimensione, la dipendenza dai social media, si scoprono due direttrici solo in parte in contraddizione. Il report di Erickson evidenzia una forte influenza dei social media nella formazione culturale degli adolescenti: per il 37% dei ragazzi YouTube e i canali social rappresentano il principale punto di riferimento, seguiti dalle serie TV (23%) e dalla musica/spettacolo (16%). Dall’altra, man mano che si cresce, a partire dai 15-16 anni, e nonostante si resti una “generazione iperconnessa”, la responsabilità dell’isolamento non può essere addebitata alla tecnologia: solo il 17% dei giovani trascorre il tempo di isolamento sui social, mentre il 25% guarda la TV, il 23% ascolta musica e il 20% gioca ai videogiochi. “Anche per l’università il primo obiettivo è la formazione del pensiero critico – sottolinea Giovanna Iannantuoni, rettrice di Milano Bicocca e presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane -, i giovani sono esposti a stimoli di bassa qualità e hanno perso la curiosità che, invece, va rimessa al centro”.

Quel centro di attenzione da cui però i ragazzi denunciano di essere espulsi. A favore, di conseguenza, della centralità di una dimensione individuale. Un giovane su cinque si sente tagliato fuori dalla società. O meglio “non si sentono al centro dell’attenzione di nessun decisore”: scuola, politica, istituzioni, imprese. Il 58% oscilla così tra inclusione ed esclusione, con la perdita per prima cosa dei rapporti con le sfere dell’impegno politico (un dato comunque oggi trasversale a tutte le generazioni, adulte comprese), dell’impegno sociale e perfino del volontariato.
Un malessere che diventa psicologico, condizione diffusa, perché denunciano di non sentirsi al centro dell’attenzione” e quindi “senza speranza” anche quando guardano ai rapporti scolastici e alla dimensione delle relazioni lavorative.
L’angoscia da crisi economica e da prospettiva lavorativa sono carburante per un ulteriore fenomeno da 100mila persone l’anno: lasciare il paese per andare cerca all’estero alternative. L’indagine della Fondazione del NordEst traccia due identikit di queste persone. Non si scappa solo per cercare stipendi più alti. O almeno non figura fra le priorità. Le imprese finiscono nel mirino perché non sono ancora capaci di rispondere (e quindi di essersi messa nell’ottica dell’ascolto) alle loro richieste: garantire una migliore prospettiva sia in termini di crescita personale (Massimo Baldacci direbbe di sviluppo umano, “l’espansione delle libertà sostanziali degli esseri umani” come lo dice in Per un’idea di scuola). Sia la ricerca di conciliazione dei desideri per una migliore qualità della vita: flessibilità d’orario, tempo libero, smart working, welfare aziendale.
Ma a questi giovani (expat per “necessità”) si contrappone chi fugge per “scelta”: oltre confine trovano condizioni migliori di sviluppo delle capacità professionali in quanto “capitale umano” che guarda a una prospettiva molto personale di crescita e di nuovo percorso lavorativo. Solo uno su dieci cerca uno stipendio migliore. È anche in questa “incapacità o ritardo nell’ascolto”, che si può leggere (e forse spiegare) una parte del fenomeno del mismathcing, un male che non sta solo o tutto dentro il perimetro delle competenze specifiche che non si trovano.

Una “pedagogia dell’ascolto” anche dentro il mondo delle aziende, aiuterebbe verso una nuova sensibilità, nel rilevare e mettere in primo piano risposte in linea con i nuovi valori (domande) dei giovani verso una dimensione di qualità della propria vita, ma anche un mondo più responsabile, sicuro, più sostenibile, con una scala di valori più attenta ai diritti di libertà di tutti e tutte. Valori “che mettono in discussione modelli di vita e di sviluppo incompatibili con gli equilibri del pianeta che abitiamo”, con le imprese prime protagoniste. E lo fanno con una radicalità maggiore di quanto sia stato fatto dagli adulti finora. I recenti annunci di imprese multinazionali di abbandono delle politiche di Diversity&Inclusion, la rivendicazione della diversità, la pretesa dell’inclusione, l’abbattimento del gender gap. Così come la messa sotto accusa o il drastico disconoscimento degli accordi sul climate change, svuotando i principi del green deal non lasciano certo ben sperare nell’incontro con questa nuova priorità di valori.
Insomma, lavorare oggi con giovani e adolescenti significa affrontare sfide sempre più complesse, tra isolamento sociale, disagio psicologico e difficoltà relazionali. Ma scuola, società e mondo dell’economia non sono chiamate da meno a questo compito. Ma il passo importante da compiere, a questo punto, in che direzione deve rivolgersi? L’unica direzione indicata da docenti e educatori è solo verso i bisogni emersi. Uno su tutti: i ragazzi reclamano spazi e momenti per la gestione dei conflitti dentro a carenza di attenzione. Sia a scuola sia fuori dalla scuola emerge una forte richiesta di luoghi non solo fisici di socializzazione sicuri. Lorenzoni, maestro, va in profondità e risponde, nel suo intervento dal titolo “Ascolto”, indicando una necessità. “C’è bisogno di reinventare per molti versi il nostro mestiere. Credo ci sia bisogno di metterci in discussione, ripensare il nostro ruolo nella società provare ad ascoltare ciò che non capiamo di giovani che negli ultimi anni hanno dovuto attraversare una pandemia, a un isolamento forzato, a due guerre, a vivere prospettive di precarietà nel lavoro diffuse, con sullo sfondo una crisi ambientale. Si tratta di sperimentare una nova capacità di cura”.