Crotone, un sito di (dis)interesse nazionale – Un’esperienza partecipata di scrittura collettiva

Crotone 1993. Il fuoco divampa e il fumo, partito da una periferia estrema del Paese, avvolge tutta la Penisola. Quelle fiamme sono l’ultima scia di un’estate di furore incendiario e diritti rivendicati. I polmoni degli operai non si empiono più di aria di mare in mezzo ai rottami di Enichem. Bruciano i fusti di fosforo rovesciati davanti alla fabbrica e con loro, sulle barricate reali di una nuova jacquerie, si consuma la speranza di industrializzazione di una città operaia. La battaglia infuria ma la guerra alla fine è persa.
Oggi le ciminiere non fumano più. Non c’è traccia alcuna dei quintali di sabbia che gli operai avevano versato per coprire le tracce di fosforo bruciato mentre colonne di fumo, denso e grigio, si levavano dalla zona orientale di Crotone. In cielo, oggi, non si leva più il fischio della sirena dello stabilimento. A distanza di trentuno anni, tutte le attese sono state tradìte. Minacciavano di fare un inferno in terra gli operai mentre rivendicavano pane e lavoro. E, invece, furono abbandonati. Intanto il vescovo Agostino, considerato da certa stampa del nord il capo spirituale degli operai incendiari, denunciava un capitalismo senza volto umano in una terra di conquiste, baronie politiche e clientelismo. Per una larga parte dell’opinione pubblica è senso comune identificare la storia di Crotone con quegli anni di lotta. Per una parte, forse meno rilevante, quella storia lontana non appartiene ad una modernità che tutto esaspera e distrugge. Per quei pochi, invece, che s’interrogano sul senso di quegli anni e sul perché di quei comportamenti, c’è il pericolo di cadere in una retorica vuota volta solo all’idolatria di un passato che non c’è più. Il modo più proficuo per cogliere il significato di quel periodo storico è, forse, allora quello di mettersi nei panni di un giovane di oggi adottando come lente di osservazione la condizione, vera e reale, che quel processo di industrializzazione fallito ha lasciato sul campo.  

“Non si è mai troppo piccoli per fare la differenza”, recita un cartellone tenuto in mano da una studentessa del Ciliberto nel corso di una manifestazione in difesa dell’ambiente. Ha grandi occhi neri e rivendica un ruolo, l’essere parte attiva di un racconto più grande. Da qui l’idea di un racconto collettivo, realizzato grazie al sostegno del Dirigente scolastico Girolamo Arcuri, che mette insieme studenti, giornalisti, rappresentanti delle istituzioni, archeologi, cittadini e che si propone di esplorare le storie di una città diventata, negli anni, un sito di (dis)interesse nazionale, di provare a comprenderne i valori, le emozioni, come primo gesto per restituire valore a luoghi umani nei quali le biografie individuali creano quel tessuto collettivo che, se riportato alla luce, aggiunge valore moltiplicando i punti di vista.  È una storia da leggere con cura, quella che è venuta fuori. Un racconto collettivo da leggere parola per parola. Perché le parole pungolano le coscienze, sono inviti alla riflessione, sono teoria che diviene prassi quotidiana di esercizio della libertà. Perché le parole obbediscono, a differenza degli uomini, alla stessa legge.

Il gruppo di studenti del Ciliberto presenta alle scuole della Rete Barbiana 2040 il loro lavoro di ricerca e scrittura collettiva


Il testo si compone di otto capitoli, quattro dei quali curati dagli studenti dell’Istituto tecnico “Mario Ciliberto” di Crotone, la cui pratica di scrittura collettiva è un tentativo di comunicazione partecipata nata da un’esperienza di monitoraggio civico dei problemi ambientali del Sin di Crotone. Attraverso l’esame degli  open data, utilizzando i metodi del data journalism, gli studenti ricostruiscono le principali tappe del processo di industrializzazione della città di Crotone, un tempo considerata la “capitale industriale della Calabria”, fino alla dismissione delle fabbriche e alla (mancata) bonifica, sollevando dubbi e interrogativi sulle tecniche adottate per la rimozione delle scorie e i ritardi nell’iter per il disinquinamento, a fronte di un’incidenza elevata di patologie tumorali (e non) nella popolazione.

Il tratto caratterizzante di questo progetto editoriale è l’approccio plurale. Il lavoro degli studenti, infatti, è completato e arricchito da contributi esterni di giornalisti, rappresentanti istituzionali e di associazioni che si sono occupati, negli anni, dei diversi  aspetti connessi all’oggetto della ricerca.

Il giornalista Antonio Anastasi ricostruisce, con rigorosa puntualità argomentativa, le principali vicende giudiziarie ruotanti attorno alle presunte (ora più che mai, considerato l’esito dei processi conclusisi per lo più con assoluzioni e prescrizioni) responsabilità relative al disastro ambientale causato da decenni di industrializzazione selvaggia nel territorio. Nel capitolo da lui curato, particolare riguardo è stato riservato anche alle testimonianze fornite nelle aule giudiziarie da ex operai che hanno descritto processi produttivi da anteguerra protrattisi fino ai decenni scorsi. Non poteva mancare, poi, il contributo del sindaco Vincenzo Voce, già fondatore dell’associazione “La collina dei veleni”, che promosse raccolte di firme e ricorsi collettivi contro la “finta bonifica” e oggi impegnato nei tavoli di trattativa con Eni, anche per rivendicare il risarcimento del danno ambientale in seguito al processo di deindustrializzazione e quello appassionato di Tina De Raffaele che, ammalatasi di cancro, ha fondato il movimento “Crotone ci mette la faccia” che si batte per il diritto alla cura e denuncia la precarietà dei servizi oncologici nel territorio. Fondamentale poi il contributo, arricchito di notizie inedite, di Margherita Corrado, archeologa e già senatrice della Repubblica che ha denunciato, più volte, lo spreco di risorse ruotanti attorno al progetto Antica Kroton.

Il gruppo di studenti dell’istituo Ciliberto con il dirigente scolastico Girolamo Arcuri


Una scrittura collettiva, dunque, in cui la scelta linguistica implica una scelta etica di rappresentazione del reale che diventa una pratica sociale concreta, perché veicola nuovi contenuti che pongono al centro il valore sacro di ogni individuo, di quegli uomini che superando la propria individualità danno origine a quella comunità di cui si sostanzia ogni democrazia. Partendo da questo presupposto ci siamo messi alla ricerca di storie con l’ambizione di riunire intorno a noi esperti ai quali offrire un ambito totalmente libero di discussione ma senza la pretesa di giungere, necessariamente, a una qualche sintesi operativa. Se quella che abbiamo davanti è una città in divenire, sullo sfondo agiscono però modi antichi di riconoscersi mentre le vicende umane dimostrano quali abilissimi camaleonti culturali siamo noi ancora oggi incapaci di entrare di nuovo nella storia, per tornare a essere, forse, un’identità dinamica. Avvolti da nuvole, basse e scure, siamo diventati addirittura incapaci di concepirlo un futuro diverso. E allora, se le emergenze sono divenute normalità, serve una nuova opera di coscientizzazione che renda possibile l’inserimento dell’uomo, direbbe Paulo Freire, nei processi della storia consentendogli, grazie ad una  educazione che sia liberatrice, la ricerca della sua affermazione sociale.  In questa città il processo di industrializzazione è fallito “come un sogno di follie venduto all’asta”. Così, ad un secolo dalla nascita di Don Milani, questa pratica di scrittura collettiva vuole essere un invito all’esercizio di una responsabilità attiva da parte di chi rifiuta l’egoismo e l’indifferenza. “Finché c’è fatica, c’è speranza”, diceva il Priore.
La società, senza la fatica dell’impegno, non migliora ma l’impegno deve essere sempre  accompagnato dalla fiducia che guida il cammino di chi vuole davvero ricostruirlo un mondo. Perché non si può vivere “mettendosi nello stato d’animo del passante o del villeggiante”, ma per rimanere. E il rimanere implica imparare che il problema degli altri è eguale al mio. Il nostro paesaggio oggi è cambiato e sta cambiando ancora. Ma noi ci siamo assuefatti. E l’abitudine ci ha resi ciechi e sordi. Indifferenti. Senza occhi. Senza orecchie. E, purtroppo, anche senza cuore. Proprio per questo servono due parole sovversive per una società diversa: I care. Per arrivare alla conoscenza della libertà attraverso la pratica della libertà.

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