Un chiarimento prima di passare all’intervento: il divieto dell’utilizzo del cellulare a scuola, in realtà, in Italia risale al marzo 2007, quando l’allora ministro Giuseppe Fioroni presentò le “Linee di indirizzo ed indicazioni in materia di utilizzo di telefoni cellulari e di altri dispositivi elettronici durante l’attività didattica, irrogazione di sanzioni disciplinari, dovere di vigilanza e di corresponsabilità dei genitori e dei docenti”. Nel documento si precisava come: “Il divieto di utilizzo del cellulare durante le ore di lezione risponde ad una generale norma di correttezza che, peraltro, trova una sua codificazione formale nei doveri indicati nello Statuto delle studentesse e degli studenti. In tali circostanze, l’uso del cellulare e di altri dispositivi elettronici rappresenta un elemento di distrazione sia per chi lo usa che per i compagni, oltre che una grave mancanza di rispetto per il docente configurando, pertanto, un’infrazione disciplinare sanzionabile attraverso provvedimenti orientati non solo a prevenire e scoraggiare tali comportamenti ma anche, secondo una logica educativa propria dell’istituzione scolastica, a stimolare nello studente la consapevolezza del disvalore dei medesimi”.
Qui sotto l’intervento di Maurizio Meregalli, medico e genitore, pubblicato nella rubrica Lettere del quotidiano L’Eco di Bergamo.
Da genitore e da medico, a proposito della circolare del ministro Valditara che vieta l’uso degli smartphone fino alle scuole medie (con le ovvie e doverose eccezioni).
È naturale che questa disposizione continui a sollevare un vespaio, in cui il rischio maggiore è quello di perdere di vista il problema. Quello che dovrebbe preoccupare nella vicenda, a mio avviso, è il «non detto».
Primo «non detto»: come è possibile che l’uso dello smartphone sia un problema fin dalle elementari, tanto da spingere il ministro ad un provvedimento così drastico? Risposta «non detta» (perché ovvia e banale? Non direi): l’uso dello smartphone è stato acquisito dal bambino «prima» dell’ingresso nella vita scolastica, ovvero nell’ambito familiare, tanto da diventare un elemento costante tra le sue abitudini. Se le cose stanno così, e dobbiamo ammetterlo se non altro dal punto di vista «temporale», l’affermazione «così facendo la scuola si impone e si sostituisce a quello che dovrebbero fare i genitori stessi, invadendo la responsabilità genitoriale» acquista un significato ben diverso.
Se c’è un uso anomalo di uno strumento, di cui non si nega la validità anche didattica, è la scuola ad ereditare questo «uso anomalo», ed avendo esaurito tutti gli strumenti disponibili (?) per mantenerlo entro i limiti di un uso adeguato, diventa necessario intervenire in modo coercitivo sugli alunni e, indirettamente, sulle famiglie che a questo punto dovrebbero sentire l’obbligo, in qualche modo, di uniformarsi, se non vogliono creare una pericolosa confusione nella testa del loro figliolo, anche a costo di modificare un atteggiamento forse troppo permissivo.
Secondo «non detto»: la preoccupazione di dover gestire la fase della giornata successiva al non uso prolungato; stiamo forse ipotizzando una forma di «astinenza» da smartphone? In questo caso, dovremmo riconoscere il rischio di un uso extrascolastico (e pre-scolastico) tanto anomalo da diventare abuso.
Terzo «non detto»: lo smartphone viene considerato uno strumento relativamente innocuo; ma allora perché si chiede alla scuola di guidare gli studenti ad un uso responsabile? E, ancora, perché la scuola? E prima della scuola? Confermo quanto segnalato in un altro articolo relativo alle iniziative del Comune di Bergamo volte a sensibilizzare ad un «utilizzo consapevole dello smartphone tra i ragazzi più giovani».
La letteratura medica si sta arricchendo di osservazioni che contrastano con il concetto di «essere innocuo», osservazioni tratte da studi che valutano irischi possibili collegati all’uso (ed all’abuso) dello smartphone in età prescolare, ed in particolare nei primi anni di vita, soprattutto verificando eventuali nessi causali con la comparsa di disturbi dello spettro autistico, di alterazioni dell’elettroencefalogramma, di disturbi del sonno, di ritardi nello sviluppo di capacità di comunicazione, di «problem solving», di abilità motorie fini (la scrittura in corsivo!) e di abilità personali e sociali. Se usati per calmare il bambino, per «tenerlo tranquillo» mentre ci si occupa di altro, questi strumenti potrebbero interferire con l’acquisizione di strategie per regolare le emozioni.
Infine, un’altra interferenza si può verificare con il dialogo in famiglia (ahimè, questo riguarda anche gli adulti) e più in generale con le relazioni sociali. I dati non sono affatto definitivi ed univoci.
Ma il quarto «non detto» comunque è un altro: perché la comunità scientifica sente il bisogno di approfondire questo tema? Mi sembra che ci sia di che discutere e riflettere.