
La scuola italiana vive una contraddizione profonda: da un lato, il bisogno esteso di innovazione didattica è evidente e riconosciuto; dall’altro, la resistenza al cambiamento da parte degli insegnanti è ancora molto forte. Se nel corso della storia non sono mancati modelli innovativi – basta guradare agli ultimi 70 anni, da Montessori a don Milani, da Freinet a Rodari, a Lodi – oggi le sperimentazioni didattiche riconosciute di valore fanno ancora riferimento a queste figure. Eppure sembrano restare confinate a casi isolati, senza una diffusione su larga scala.
Perché le pratiche innovative di fare scuola non si diffondono più velocemente di quanto succede? Perché se tutti hanno chiaro che molte cose nella scuola non funzionano, poi continuano a proporre a propri studenti i vecchi modelli di didattica in un eterno ritorno al sempre uguale?
Un esempio concreto di questa contraddizione arriva da Lecco, dove il provveditorato ha avviato un’iniziativa chiamata Faro Didattico e rivolta ai suoi 1.500 docenti docenti delle scuole dell’infanzia e della primaria, per raccogliere e presentare come best practice modelli didattici innovativi. E’ certamente una delle tante iniziative su scala nazionale per dare voce e far conoscere realtà innovative esistenti, esperienze scolastiche “contro corrente”, nate “dal basso” e quasi sempre nascoste anche dallo stesso sistema scuola. Cosa succede in queste occasioni?
L’interesse iniziale è alto: numerosi docenti si iscrivono agli incontri, ma alla prova dei fatti solo un terzo partecipa realmente. Ancora più allarmante è il dato sulla sperimentazione in classe: dopo gli incontri, sono pochissimi gli insegnanti che decidono di adottare le nuove metodologie. Un caso emblematico riguarda un recente appuntamento sulle Creazioni Matematiche del Gruppo di ricerca MCE: su 90 iscritti, solo 35 si sono presentati e appena due docenti hanno deciso di portare il metodo in aula. Già qui è evidente quanto ampio sia il pasticcio scolastico.

Il problema però non è la mancanza di idee o di proposte per scalfire il “pachiderma” della scuola: l’offerta formativa carica di cambiamento in realtà è buona e articolata. Tuttavia, la scuola continua a essere governata da pratiche tradizionali che si perpetuano senza una reale volontà di mettersi in gioco. Con un rischio ulteriore: accumulare altro ritardo. I tempi saranno molto più lunghi rispetto ai ritmi velocissimi di come invece stanno accelerando i cambiamenti degli altri contesti di riferimento della scuola, della didattica rispetto alla vita, ai nuovi bisogni, ai contesti sociali e alle nuove azioni umane che vengono richieste (a imparare ormai si sa, non si smetterà mai), ai nuovi assetti sulla qualità delle dinamiche di relazione, fino ai nuovi mondi del lavoro e ai loro differenti mercati, fino ancora ai più complessi cambiamenti degli intrecci diretti fra queste dimensioni: pubblico e privato, scuola e mondo del lavoro, innovazione e tradizione, imprese e territorio.
L’inerzia sembra avere il sopravvento sulla voglia di innovare. Non si tratta solo di paura del cambiamento, ma anche di una questione di fatica: sperimentare richiede tempo, impegno e la capacità di affrontare l’incertezza. La categoria tradizionale dei docenti non possiamo dire essere “nativa” delle sperimentazioni e delle innovazioni. Mettersi in gioco è rischioso e perdipiù comporta una fatica nuova rispetto alla rendita garantita dalla scuola tradizionale. Scuola basata su pratiche inerziali che “guidano la prassi della didattica, e che si perpetuano all’infinito. In molti alla fine preferiscono rimanere nella comfort zone della didattica tradizionale, dove tutto è già strutturato e consolidato.
Inoltre, l’innovazione richiede il coraggio di esporsi, di rischiare di non ottenere risultati immediati e di affrontare possibili critiche da colleghi. Molti docenti, soprattutto quelli con maggiore anzianità di servizio, preferiscono mantenere una posizione di stabilità, evitando di mettere in discussione metodi consolidati. La scuola tradizionale garantisce una sorta di rendita di posizione: si insegna come si è sempre fatto, senza dover affrontare la complessità delle nuove metodologie. Questo atteggiamento crea una stagnazione che frena il necessario cambiamento della scuola.



Questa resistenza, va detto, è aggravata anche dalla mancanza di incentivi concreti per chi sceglie di innovare. I fondi del Pnrr sono finiti per la scuola. E spesso, il riconoscimento per chi sperimenta rimane marginale, mentre il rischio di fallire o di dover affrontare ostacoli burocratici e organizzativi è elevato. L’assenza di una formazione continua efficace e di supporti strutturali incide ulteriormente sulla capacità di trasformare la teoria dell’innovazione in una pratica quotidiana diffusa.
Nonostante queste difficoltà, Faro Didattico ha avuto il merito di far emergere le buone pratiche esistenti, spesso sviluppate in modo isolato da singoli insegnanti. E rimaste nel sottodidattica della scuola. Ha creato però un “palco” per le sperimentazioni, dimostrando che l’innovazione non è solo un’utopia, ma una realtà possibile. Non a caso, molte delle presentazioni sono state guidate da docenti giovani, appena laureati, che portano spinta e nuove idee. Il loro approccio non si limita all’adozione di strumenti e metodologie diverse, ma promuove anche una cultura della condivisione e della collaborazione.
Una docente di Lettere ha sottolineato un aspetto cruciale: «A scuola manca quasi sempre uno spazio per condividere osservazioni e riflettere sulle dinamiche delle lezioni. Una pratica che facciamo pochissimo». Eppure, proprio il confronto tra docenti è la chiave per un vero cambiamento. La scuola non può rinnovarsi se ogni insegnante lavora in solitudine, senza momenti di scambio e di contaminazione.


L’innovazione nella didattica non ha una ricetta unica e perfetta. Ciò che serve è il coraggio di sperimentare, uscire dagli schemi e confrontarsi con gli altri. Faro Didattico, gli va riconosciuto, è un’avanguardia in termini di opportunità lungo la direttrice del cambiamento, ha acceso una luce su questo processo. L’obiettivo ora è evitare che questa spinta si esaurisca e che la scuola continui a rimanere indietro rispetto ai cambiamenti della società, del mondo del lavoro e delle nuove esigenze educative. Il rischio, altrimenti, è accumulare altro ritardo. Creare spazi di confronto regolari tra docenti e investire sulla contaminazione di pratiche innovative è una buona opportunità di rinnovamento della didattica. Magari acquisendo un valore in più se fosse esportata come progetto e opportunità oltre i confini del territorio dove è stata sperimentata.