La solitudine degli adolescenti: relazioni autentiche per superare il vuoto

Quando con gioia mi ritrovo a incontrare i genitori, in particolare quelli dei figli che stanno frequentando gli ultimi anni della scuola primaria, la maggioranza delle volte si ricade nel dire «eh sì… in fondo stanno già entrando nella preadolescenza…» e poi leggi dallo sguardo e percepisci nell’emissione di un profondo respiro che timidamente prendono spazio le parole: «speriamo passi alla svelta…». E allora, pongo loro questa riflessione: «Già… tutto vola via in un batter d’occhio e noi tutti possiamo attestarlo; dunque, cosa vogliamo per i nostri figli/e? Che la vita corra ancor più veloce?».

Questo ci dice chiaramente che l’età adolescenziale è vista, da buona parte degli adulti, come un fase problematica della vita, dalla quale è sempre più difficile uscire… sicuramente qualcuno se potesse farla by-passare ai propri figli lo farebbe ben volentieri… ma la vita, senza se e senza ma, la pone sulla strada di ciascuno. E dunque… perché cercare di superarla rapidamente e, alla peggio, metterci sopra quanto prima una pietra, dimenticando che «chiederà il conto?» (Cirillo, Soffrire di Adolescenza). È un’occasione, un’opportunità che non merita di essere oggetto di rimpianto per i protagonisti, negli anni a venire, ma chiede di essere attraversata… perché, semplicemente, è vita!
Una prima riflessione parte dalla caratteristica che spesso attribuiamo riguardo a questa fase della vita, ovvero il “disagio”. Ma se, per un attimo torniamo al significato della parola, scopriamo che non si tratta di disagio ovvero di «mancanza di agi, di comodità» (Treccani) perché in fondo, come mi raccontavano due adolescenti seduti sulla panchina nel cortile dell’oratorio, oggi abbiamo tutto e, in effetti, i genitori del nuovo millenio fanno di tutto per accontentare i propri figli. Allora ci viene in aiuto un altro termine, che a mio parere risulta più appropriato in quanto ci indica anche la strada da percorrere: il “malessere”.


Esso non è semplicemente questione fisiologica, riconducibile a uno stato di salute transitoria, bensì uno «stato di vaga sofferenza che, per la sua stessa natura, provoca un senso di inquietudine interna» (Treccani). Infatti, se per contrastare il “disagio” possiamo semplicemente togliere ciò che lo provoca, ricolmando il vuoto con ulteriori comodità all’avanguardia; il termine “malessere” ci invita a com-prenderlo per trasformarlo. Accanirsi con ulteriori comfort, significherebbe accentuare inesorabilmente il disagio e ci porterebbe a non perseverare l’obiettivo teso al miglioramento della condizione esistenziale, anzi a indirizzarci verso il senso contrario: semplicemente sarebbe come offrire ulteriore zucchero a chi soffre di diabete o regalare una confezione di radice di liquirizia pura a chi è affetto da ipertensione. Prendere con sé il malessere di un adolescente, che oggi «si esprime senza voce», chiede come prima condizione quello dell’esser-ci, di stare con lui per raccoglierlo insieme e, condividendolo, trasformarlo.
Chissà quanto malessere era presente in Simon Pietro sul lago di Tiberiade dopo una notte senza aver pescato nulla (Lc 5,1-11): il Maestro non arriva regalando del pesce, quale compenso rispetto a ciò che è mancato, ma nella relazione fondata sulla parola il malessere si trasforma in ben-essere. In questo si apre un cammino vero “sulla tua Parola” nel quale il risultato finale è l’abbondanza, il dono senza misura.

Scaturisce così una seconda riflessione che ci mostra come è possibile uscire dalla situazione di malessere perché è già insita una strada, quella della “relazione”: è proprio essa l’unica capace di risanare le ferite, di riempire i vuoti, di porre pioli saldi sulla scala della vita.
Leggendo le pagine del libro Soffrire di Adolescenza. Il dolore muto di una generazione scritto da Loredana Cirillo, psicologa e psicoterapeuta all’Istituto Minotauro, e in particolare la narrazione di storie reali presentati sottoforma di racconti in cui i veri protagonisti assumono il volto di un personaggio mitologico che meglio li rappresentano, emerge in modo molto chiaro come l’origine del malessere, spesso silenzioso e incompreso, risiede nell’obiettivo che i nostri adolescenti perseverano: scrive Cirillo «l’obiettivo non riguarda la conquista del nuovo oggetto d’amore, ma ha spesso a che fare con la conquista mai davvero realizzata nel confronti del primo oggetto d’amore, i genitori, gli adulti di riferimento».


A questo proposito ci dovrebbe far riflettere anche la frenesia quotidiana che ci spinge sempre più, in tempi rapidi, tecnologici ed economici, verso una società performativa costruita sulla fragilità di risultati di performance che oggi conquistano il podio mentre domani sono già dati statistici di archivio; il tutto a discapito di una società fondata sulle relazioni che non si indeboliscono in silenzi con il trascorrere degli anni, ma al contrario, in un dialogo autentico e appassionato, si rafforzano e si consolidano: allarmante è il monito in cui si registra come «di poche parole sono sempre più i bambini in età prescolare».
Così traspare, una terza riflessione che svela un orizzonte drammatico: la «perdita dell’autenticità». Una relazione priva di autenticità è una relazione take away, ovvero “prendi e vai” e di questo possiamo contemplare diverse situazioni che ogni giorno ci vengono redatte dai mezzi di comunicazione le quali purtroppo sfociano in atti gravi sul proprio corpo (tagli, disturbi alimentari…), sulla propria mente (ansia, depressione, dissociazione…) e sugli altri (bullismo, cyberbullismo, omicidi, femminicidi…). Non solo, una relazione priva di autenticità pone le basi di un «silenzio verso i genitori», gli stessi genitori «perfetti e brillanti», «vicini ma lontani», che con il tempo si degenera in «silenzio verso i pari»:«i pochi tentativi di dire ai suoi come si sentisse e cosa volesse davvero, parevano del tutto vani. Per questo ha imparato molto presto a tacere a se stessa cosa realmente provasse».  Si attualizza così quello che nel libro viene identificato come il «sacrificio del figlio» che viene perpetuato in nome del Sé, dell’idea di futuro verso il proprio figlio, della brama di gloria per essere il perfetto genitore che si manifesta come «anti-evolutivo e distruttivo» provocando nel più giovane «un terremoto emotivo».


La mancanza di relazione genera un «senso di vuoto» il quale non chiede risposte che l’adolescente può dedurre dall’aver «imparato a leggere e interpretare mirabilmente la mente dei propri genitori», ma chiede di essere abitato, non a livello virtuale bensì reale, per svelare il «senso» di cui è portatore poiché è qui che prende forma il Sé: è necessario sostenere i nostri adolescenti nella «costruzione del loro Sé più autentico» navigando con fatica e perseveranza in «una cornice culturale narcisistica» poiché la vocazione di ciascuno «nasce da un contatto con una verità urgente, inderogabile, è l’eco di una parte autentica del Sè».
Ecco allora che in questo senso di vuoto, la figura e il ruolo del genitore viene “assorbita” dallo psicoterapeuta che «non ha il dono onnipotente della salvezza – come spesso è richiesto per accelerare nuovamente i tempi – ma sostiene, accompagna gli individui a trovare le strade per ricollocarsi nella propria storia, per rialzarci dagli inciampi, per trovare le proprie verità, attivare le forze per capire chi sono davvero». Un grido dovrebbe scuoterci: «quanto tempo abbiamo lasciato al conflitto, al vuoto e alla noia che generano pensiero e parole»?
In questo cammino emerge un forte atteggiamento, all’apparenza di “ansia” se collegato alla pressione sulle performance ma se bene analizzato di “angoscia” a causa di una relazione che viene meno, che attraversa i nostri adolescenti, presentandosi come la punta di un iceberg, sostenuto dalla «mancanza di narrazione»: basta pensare «l’assenza di narrazioni sui fatti del quotidiano, farsi bastare “tutto bene” come risposta alla domanda “come è andata oggi?”» . È la conseguenza più concreta del silenzio a cui ci riferivamo poco sopra che favorisce «l’annichilire (cioè distruzione) del sé invece di esprimerlo». Scaturisce inevitabilmente un fiume di tristezza che può rompere gli argini e portare alla disperazione ma se contenuto, indirizzato, accompagnato può tornare a far scorrere gioia per riapparire e far sentire la propria voce di speranza che non si arrende a scavare dentro di sé per trovare il coraggio di affrontare le sfide della crescita. «La tristezza è il sentimento umano che più spesso guida la vocazione al mestiere di cura» per il quale è indispensabile «tempo, disponibilità e pazienza».

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