L’ascolto e la parola, l’eredità potente di Danilo Dolci. Il figlio racconta: ecco come rilancio il riscatto della scuola e della società

Danilo Dolci – Foto Centro Sviluppo Creativo Danilo Dolci

“Cominciavo a capire che come architetto lavoravo solo per i ricchi, per chi aveva i soldi e non per chi non aveva né soldi né case. Occorreva dunque fare un altro lavoro, prima dell’architettura e prima dell’urbanistica”.
È la potente riflessione che segna la prima svolta della vita di Danilo Dolci, nell’anno 1950. Lui che era nato a Sesana, oggi Slovenia, interrompe gli studi (stava già lavorando alla tesi di laurea) e va ad abbracciare i bambini sbandati e accolti nella comunità di Nomadelfia di don Zeno Saltini, in provincia di Modena. Nemmeno un anno, e arriva la seconda svolta, quella radicale. Questa è “un’arca, seppur meravigliosa”, ma è separata dal resto del mondo. E detto questo di Nomadelfia, parte per raggiungere il paese più povero e bisognoso che “avesse mai visto”, Trappeto, in Sicilia. Pescatori e contadini.
Barbiana, Trappeto. Due borghi abbandonati, luoghi dimenticati. Solo gente poverissima, umile, in condizioni di vita disperate. Danilo Dolci e don Lorenzo Milani, un parallelismo continuo che inizia qui. Da queste due distinte realtà hanno ostinatamente perseguito la stessa idea rivoluzionaria: l’educazione come strumento potente di trasformazione e di riscatto sociale, di contrasto a ignoranza e povertà.
Un prete e un sociologo; un maestro e un poeta: entrambi si sono dedicati a dare voce agli oppressi, combattendo l’ingiustizia con la forza della parola, della partecipazione, della non violenza. Entrambi hanno vissuto e subito vicende e vicissitudini giudiziarie per giuste cause civili. Come don Milani, anche Danilo Dolci ci lascia un’eredità potente, fondata sul valore dell’ascolto e sulla necessità di trasformare la conoscenza in azione. E forse un po’ più di don Milani, Danilo Dolci era tutt’altro che isolato nelle sue battaglie: Alberto Moravia e Ignazio Silone sono fra i primi intellettuali ad appoggiare le sue lotte, poi Cesare Zavattini, Carlo Levi, Federico Caffè, Ernesto Rossi. In Parlamento le sue cause trovano schierati De Martino, Pajetta, La Malfa, Mancini, Giorgio Napolitano. Arriva il sostegno anche di personalità internazionali. Definito il “Ghandi d’Italia” per i suoi digiuni divenuti strumenti di battaglia, Danilo Dolci è stato anche candidato al premio Nobel per la Pace proprio per il suo progetto di riscattare la Sicilia dalla mafia, dalla povertà, dall’ignoranza.


Quest’anno, appena dopo la celebrazione del centenario della nascita di Dolci (il 28 giugno 2024), la Rete di Scuole Barbiana 2040 organizza la sua quarta assemblea nazionale a Palermo, nella Sicilia di Danilo Dolci, il 15 marzo. Sarà un confronto costruttivo fra gli strumenti educativi di riscatto sociale generati dai due protagonisti: la maieutica di Danilo Dolci, la pedagogia della parola e della scrittura collettiva di don Milani. E questo viaggio lo iniziamo così, incontrando il figlio di Dolci, Amico.
È subito affascinante ascoltare Amico mentre parlare del valore morale dell’opera del papà, dell’impegno morale per una giustizia sociale, per le lotte contro le mafie, per l’educazione come strumento di emancipazione. Al centro del metodo di Dolci c’è la maieutica: il processo educativo che parte dall’ascolto e dal confronto, creando uno spazio in cui “ogni voce conta”.
“Nelle scuole, oggi, travolte dalla fretta e dalla superficialità – spiega Amico Dolci -, il modello di mio padre indica una strada alternativa: costruire il sapere collettivamente, dare ai cittadini, ai giovani, agli studenti strumenti per comprendere la realtà e aiutarli a sviluppare una responsabilità attiva. È la via per riflettere su un’educazione che non trasmetta solo nozioni, ma renda i cittadini e i giovani protagonisti del cambiamento”.
L’impegno di Amico è altissimo: musicista, flautista di fama, docente al conservatorio di Palermo, è presidente del Centro per lo sviluppo creativo Danilo Dolci, associazione no profit fondata dal padre e a lui poi intitolata dopo la morte. Amico viaggia da Nord a Sud dell’Italia in continuazione, incontra migliaia di giovani, adulti, scuole, associazioni. Negli ultimi dieci giorni ha tenuto ventuno incontri. Gli ultimi a Schio, poi a Vicenza. Oggi è a Roma. Questa intervista riesco a rubargliela alle 9 del mattino, prima che alle 10,30 entri in una scuola per l’ennesimo incontro con i ragazzi. C’è subito empatia, entriamo in sintonia sui temi, ci diamo subito del tu.

Danilo Dolci – Foto Centro Sviluppo Creativo Danilo Dolci

– Ci racconti come e da dove inizi a presentare la figura e le sfide affrontate da tuo padre quando sei davanti a una platea di giovani e di adulti? Da quale tema inizi a spiegare il suo alto impegno e la sua potente lotta sociale?
A me piace moltissimo parlare di papà. E sono molto felice di farlo anche adesso. Ma quando mi invitano a parlare di Danilo Dolci, non è tanto di lui che racconto. Certo che lo faccio, naturalmente. Ma è la sua metodologia che riproponiamo, centrata sull’ascolto dell’altro e sulla parola. Lo facciamo da anni nelle scuole, nelle associazioni, nei gruppi, nei laboratori maieutici. Sono i luoghi che creiamo perché è dove ci si ascolta, ci si confronta. E spesso scopriamo che è la prima volta che succede, dalle scuole elementari, alle medie fino anche in terza o quarta liceo. Non capita così di frequente che ci siano occasioni per parlare così liberamente, dove ciascuno ascolta quello che dice il compagno e non solo il professore. Ecco, quando succede l’ascolto diventa sempre dirompente. Ci si rende conto che ascoltarsi e potersi esprimere oggi sta diventando quasi un lusso in questo caos di informazioni che rende difficile sapere da che parte cominciare ad agire, a pensare, a riflettere. Ecco, papà avrebbe iniziato da questa indicazione nei suoi laboratori: riprendere a studiare per prendere coscienza e conoscere le situazioni di bisogno o di necessità, chiedendo alla gente di informarsi, di attivarsi per capire e decidere come affrontare e aggiustare le situazioni e i bisogni. Questo è sempre stato il pilastro della metodologia di papà e che noi, dopo la scomparsa di papà, oggi continuiamo a riproporre.

Danilo Dolci con il figlio Amico – Foto Centro Sviluppo Creativo Danilo Dolci

– Prima di approfondire questa parte metodologica, ci fai rivivere un tuo ricordo caro, quello più vivo che ancora conservi di papà Danilo rispetto alla sua figura in famiglia e uno sul fronte pubblico?
Sono tantissimi i ricordi, difficile scegliere. Fra quelli privati però devo dire che ho cominciato a rendermi conto della consistenza di papà, del suo lavoro, ma anche della sua notorietà e fama quando ho letto verso i miei 9-10 anni il suo libro Processo all’articolo 4. Si parla di una vicenda di 9 anni prima, io non ero ancora nato, sono del ‘57, il processo è del 1956, e leggere dopo tutti quei particolari mi commuoveva davvero, avevo capito che papà voleva fare una cosa buona e invece lo avevano arrestato. Da bambino non capivo la perfidia, la cattiveria di quelle persone che volevano accusarlo di fatti che lui non aveva mai pensato di fare. Papà voleva solo aiutare la gente attraverso il lavoro. E questo mi commuoveva molto. Ero bambino e non capivo. Così, spesso, facevo le domande alla mamma per avere più particolari, più dettagli. Ma papà era una scoperta continua anche nel tempo libero, quando stava con noi: andare al mare con lui, per esempio, non significava andare per fare baccano e giocare con la sabbia. Si viveva quel tempo quasi fosse un momento di meditazione, di riflessione e di apprezzamento dell’acqua che ci stava avvolgendo facendo il bagno. Era come se si fermasse il tempo. Ed essere dentro l’acqua era sentirsi parte della natura, era un’esperienza che partiva da papà come un moto di apprezzamento. I tuffi da 8-9 metri li facevamo anche noi, i giochi d’acqua, e si facevano con grande gioia. Ma poi il papà ci portava a fermarci per apprezzare quelle sensazioni, l’ascoltare il suono, il fresco, il bagnato, la meraviglia del mondo subacqueo scoperto fra scogli, segreti, piante, pesci. Questo di meraviglioso ci è rimasto, a tutti noi fratelli, per sempre.

– Fra i momenti pubblici, invece, ci sono anche episodi molto significativi e tristi del suo impegno civile, politico e di lotta alla mafia per la difesa dei diritti dei cittadini…
Momenti che mi hanno anche preoccupato. Quello che mi ha più preoccupato, io avevo 9 anni, è stato quando papà ha fatto un digiuno a seguito del processo a Castellammare, il luogo dove il sistema clientelare mafioso aveva attecchito più di tutti. Castellammare e Alcamo erano covi di mafiosi, e alcuni di questi mafiosi erano pure sindaci di paese, con la collusione politica. Nessuno però, in seguito al processo, ha mai voluto approfondire, nonostante le documentazioni presentate da papà e da Franco Alasia. È stato allora e in questa occasione, più che per altri digiuni fatti da papà, che sono stato preoccupato, lì eravamo nella tana del lupo. Avere 9 anni e pensare a queste cose era davvero impegnativo.

Danilo Dolci – Foto Centro Sviluppo Creativo Danilo Dolci
Amico Dolci

– Contesti difficilissimi, dominati dalla criminalità, dalle organizzazioni mafiose, ma anche dalla disuguaglianza, povertà, ingiustizie. Temi e sfide sociali e politiche di quel momento storico, ma ancora oggi ben presenti nel nostro vissuto sociale, con l’aggiunta delle crisi migratorie, ambientali, di povertà nuove in forte crescita. Come le avrebbe affrontate oggi Danilo Dolci queste emergenze sociali, con quali strumenti e con quali suggerimenti innovativi?
Direi che in questo l’attualità di Dolci è paragonabile a quella di don Milani. Sono tante le analogie, le similitudini con cui entrambi avrebbero affrontato queste sfide. La parola, la conoscenza della parola e non solo il chiedere parola, ma il prendere parola sono operazioni importantissime per le persone che subivano e subiscono oggi queste emergenze. Se succede ancora oggi è perché, come allora, non hanno gli strumenti per chiedersi il “perché siamo in queste condizioni”? In questo la situazione era identico qua in Sicilia come a Barbiana: papà si rivolgeva sempre alla gente per chiedere, ma si accorgeva che soffriva senza conoscere quale fossero le cause, i problemi reali. Anche qui riemerge l’insistenza di don Milani per studiare e potersi riappropriare degli strumenti con cui i padroni tengono la gente in condizione subalterna. Una situazione che va rovesciata, e ancora oggi c’è bisogno di riappropriarsi del proprio sano, legittimo potere di parola.

– E da dove si può cominciare questo processo per riappropriarsi della parola?
A cominciare dai bambini, nel loro piccolo, dai giovani e dagli adulti, diceva spesso papà. Perché possano arrivare a suscitare un proprio senso di responsabilità. Questo è un passaggio delicato e importante perché suscitare senso di responsabilità significa trasformare ciascuno di noi in un motore di azioni e di trasformazione. L’idea portante del nostro Centro per lo sviluppo creativo è sempre di farlo insieme, in gruppo: l’attenzione all’individualità va certamente data, ma il gruppo è uno strumento che può raggiungere una forza tale da sconfiggere una potenza violenta, esterna. Storicamente è stato sempre così.

– Ti sei riferito molte volte ai più piccoli, hai parlato di giovani, hai parlato di messaggio da raccogliere da parte delle nuove leve. Facendo sempre questo parallelismo con don Milani, con l’istruzione, con il modello scuola, qual è la lezione più importante che oggi Danilo Dolci potrebbe indicare agli educatori, ai formatori, agli insegnanti considerando anche chi sono i giovani che hanno di fronte, travolti da problemi come ansie, solitudine, angoscia, mancanza di prospettive?
Sintetizzo così il progetto che stiamo portando avanti: al centro c’è sempre l’ascolto come impegno per progettare, per immaginare meglio i propri sogni. E insieme agli altri come tendere a realizzarli. È un complesso di attività, di ricezione, dalla scuola alla classe e fra le classi. La maieutica è “tirare fuori”.  Ma non è sufficiente ascoltare, prendere atto di quello che si è riusciti ad esprimere. Occorre vedere quali sono le leve del cambiamento, piccolo o grande che sia, anche familiare, nella gestione della scuola, della classe, dell’orario. Quando noi, per esempio, nelle scuole ci mettiamo in cerchio e parliamo con i ragazzi, ci si guarda in faccia, ci guardiamo negli occhi e non vediamo solo la nuca dell’altro compagno, sai che cosa succede dopo 1-2 esperienze di due ore ? Che i ragazzi dicono: “Ma perché non studiamo sempre così? Ci vediamo e ci ascoltiamo meglio. Immaginare un sogno è proprio il contrario di quello che spesso succede. Tutti siamo costretti invece ad assorbire passivamente, che non significa assimilare. Siamo inondati da un mare di informazioni, di video, audio, veleni… Mi chiedo: dov’è il nostro io che può esprimersi? Sapendo che per esprimersi occorre una capacità di elaborare informazioni, di pensiero. Cioè esattamente quello che il ragazzo di solito non è invitato a fare. È chiamato invece a ripetere, ma ripetere non è creativo. Esercitare la creatività si fa insieme con gli altri, e anche se è una sorgente di impegno, di fatica diventa poi fonte di entusiasmo, di gioia e la si fa volentieri.

Danilo Dolci – Foto Centro Sviluppo Creativo Danilo Dolci

– Che tipo di atmosfera trovi nelle scuole quando arrivi a proporre questo tipo di modello educativo? Che scuola trovi oggi in realtà?
Devo dire che per fortuna ci sono tantissimi esempi di persone già attente e con questa sensibilità, solo che spesso non se ne rendono conto. Ma un fatto va detto: in genere la parola “ascolto” esce nella discussione solo quando un professore dice: “Ma i ragazzi non ascoltano”. Se è vero, allora mi domando: ma i ragazzi invece chi li ascolta? Non c’è mai questo spazio in cui possano dire qualcosa di sé. Questa mancanza è atrofizzante per la crescita di un bambino, di un ragazzo. Genera abitudine, difficoltà e così quando un giovane vuole esprimersi si scopre incapace perché vittima di un processo continuo che inculca solo nozioni. E’ così che diventi un ragazzo senza più gli strumenti del sapere e questo rifiuto poi spesso genera violenza.

– Ma non basta obiettare per rifiutare qualcosa, occorre anche una proposta, avviare iniziative diceva Danilo Dolci. Oggi se volessi tu dare, sulla base dell’insegnamento e delle eredità di Danilo, quale azione indicheresti come più urgente per il mondo educativo?
Negli ultimi dieci giorni ho tenuto ventuno laboratori. Quello che emerge da tutte questi incontri è la necessità di sapere di più, di capire di più. E di come fare qualcosa. Detto così sembra molto in astratto. Ma è importantissimo perché ogni realtà rappresenta una necessità diversa, ogni contesto esprime una domanda differente. L’altro fatto importante è che in ogni luogo c’è sempre qualcuno che si rende conto che qualcosa si può fare. Per esempio, capita sempre più spesso che i temi da discutere li propongono ragazzi stessi, e vogliono parlare di povertà, di amore, di felicità. Argomenti enormi. Li affrontiamo con la stessa metodologia: attenzione e ascolto. Succede così che i ragazzi si scoprono creativi, attivi, volenterosi. Un altro esempio: uno degli ultimi temi che sto discutendo con i giovani è sulla distinzione delle parole “potere” e “dominio”: ragioniamo per differenziare il significato su potere inteso come ciò che ciascuno può fare, su come ciascuno ha la possibilità di fare, su come ciascuno dovrebbe avere la libertà di poter far, sia come verbo sia come sostantivo. Ecco qui i ragazzi arrivano a scoprire tantissimi significati a cui non avevano mai pensato, e che poi hanno ricadute sui loro comportamenti e dinamiche di relazione. In rapporto al “dominio”, soprattutto nei bambini di quinta elementare, l’associazione è subito con il bullismo, da cui emerge che bisogna difendersi ma in maniera non violenta. Ecco questi sono tutti ragionamenti che poi cambiano l’atmosfera nella classe, le relazioni fra alunni della classe, ma anche fra le classi.
Penso proprio che questa metodologia dello scoprire e attrezzarsi per modificare è molto, molto efficace.


– E un consiglio da ultimo ai nostri docenti da portarsi in classe per poi applicarlo con i propri alunni?
Una maestra mi aveva detto prima che entrassi nella sua classe: stia attento che questi ragazzini sono discoli, un po’ turbolenti. Dopo due ore che ero con loro, quarta elementare, erano ancora tutti attentissimi, nessun problema di disciplina. La maestra sorpresa mi dice: bellissimo, ma come ha fatto? La guardo e le dico, ma come non c’eri anche tu, non hai visto? Oppure, in un altro caso, e sempre al termine di un incontro con i ragazzi di un liceo, una professoressa mi dice: “Ho saputo dei miei allievi più oggi in queste due ore che nei tre anni passati con loro”. Credo che sia incredibile. Io sono felice che questa metodologia possa aprire, fare incontrare. Ma allo stesso tempo mi domando: la scuola che cosa fa? Non è possibile che un professore ammetta, onestamente e quasi con piacere, quelle cose. Credo sia incredibile.

– Quali sono i passi più importanti da realizzare per fare questo percorso verso l’ascolto secondo la maiuetica di Danilo Dolci?
L’attenzione è il primo passo, significa favorire le condizioni affinché la creatività individuale e di gruppo si possano esprimere. E poi si possa attrezzare per fare, per realizzare e intervenire. Queste condizioni noi le proponiamo nelle scuole, ma bisogna averle studiate, scoprire quali sono le condizioni più efficaci affinché si possa meglio comunicare. Saranno i ragazzi, a poco a poco, a farle scoprire e inventarle e questo succede solo perché l’insegnante non ha mai provato ad ascoltarli. Mettere i ragazzi nella condizione di riflettere e di pensare è solo una delle necessità della scuola, uno dei compiti. Direi però prioritari.

Qui alcuni dei testi fra biografia di Danilo Dolci e sui scritti di documentazione delle attività e dell’impegno sociale e politico. Per chi volesse approfindire la figura di danilo Dolci proponiamo qui una bibliografia più accurata.
Buona Lettura

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