L’atteso imprevisto: ecco come accoglierlo in classe e renderlo motore di consapevolezza

Sono le 7.45 del mattino ed entro in aula, è la classe quarta… Come al solito apro la finestra per far entrare un filo di aria fresca e, mentre appoggio giacca e zaino, noto una cosa strana: i banchi disposti perfettamente in forma circolare! Posizione che prediligo particolarmente perché ricorda visivamente a chi occupa un posto che siamo tutti uguali e permette di dialogare guardandosi bene negli occhi, inoltre la piccola apertura del cerchio ricorda che bisogna essere sempre pronti ad accogliere l’ospite inatteso, sia esso una persona o un oggetto. Ecco allora che scatto una fotografia: chissà… mi tornerà utile per qualche sfondo di diapositiva di power-point, visto che le uso frequentemente, oppure finirà in una delle tante cartelle dal titolo “Fotografie varie”.

Il tempo passa velocemente e sta per suonare la campanella d’ingresso: salgo ad accogliere gli alunni e con loro mi reco in aula per dare avvio a una nuova settimana. Primo elemento inatteso e imprevisto: una bambina molto triste, piange e cerca di nascondere le lacrime tra la sciarpa e il berretto. La noto e nel tragitto mi affianco a lei cercando di capire cosa stesse succedendo e soprattutto il motivo del pianto. Cerco di aiutarla a togliere la giacca, indossare le ciabattine, depositare lo zainetto e pian piano mi racconta il motivo della sua tristezza: il nonno era stato investito nei giorni scorsi e si trovava in ospedale. La preoccupazione era tangibile e non era facile per me trovare le parole giuste, anche perché non sapevo con esattezza in che condizioni di salute si trovasse il nonno, ma attraverso un abbraccio e qualche timida parola, sono riusciti a portarla in aula lasciando alle spalle le lacrime.


«Bene, dico tra me e me, primo scoglio superato…» ma, entrando in aula, noto un secondo elemento inatteso e imprevisto: uno spostamento di banchi all’apertura del cerchio. Allora chiedo: «chi ha spostato il banco e perché lo ha fatto?». Come classico tra i bambini, si comincia a negare l’evidenza sostenendo che «i banchi erano già così» o addirittura «la bidella li aveva posizionati in quella modalità». Inizia così un confronto interessante dalla quale impariamo che è giusto aspettare e attendere che l’altro dica quello che pensa senza un mio giudizio immediato… ma tutto ciò sembra non portare alcun esito risolutivo rispetto alla questione. Qualcuno decide di andare dalla collaboratrice scolastica a chiedere il perché ma non ottiene una risposta soddisfacente; qualcuno decide di lanciare le prime accuse ma i più coraggiosi le rimandano al mittente e così via…

Ad un certo punto dico: «guardate che ho la fotografia di come erano, perché proprio questa mattina ne ho scattata una!» Increduli di tutto ciò, accendo la Lavagna Interattiva Multimediale ed ecco che proietto proprio quella fotografia: banchi in perfetto cerchio con una piccola apertura. Una semplice fotografia diventa ora la protagonista senza dire alcuna parola… e all’improvviso cala un silenzio irreale e assordante. Lascio qualche minuto e poi a bassa voce chiedo: «che dite?». Qualcuno timidamente sostiene che fosse uno scatto datato, nonostante ci fosse scritta sia la data sia l’ora e tutti i materiali attorno erano nella stessa identità posizione.


Quindi invito tutti a riflettere sul fatto che qualcosa è stato spostato mentre tutti erano in aula e nessuno ha il coraggio di ammettere se è stato lui oppure no e addirittura nessuno ha la risolutezza di raccontare ciò che ha visto. Mi mostro molto preoccupato sul secondo aspetto e quindi qualcuno esorta i compagni a dire la verità: «dai su… cosa aspetti a dirlo? Prima lo dici, prima iniziamo a lavorare! Tanto non ti fa niente…» a tal proposito mi tornano in mente le parole di don Primo Mazzolari: «A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca?».
Nel frattempo tolgo dal mio zainetto i fogliolini che riservo sempre in una tasca e comincio a distribuirli. Chiedo loro: «scrivete in totale anonimato da un lato “sono stato/a io” oppure “non sono stato/a io” e dall’altro lato un consiglio da offrire alla classe per imparare a raccontare con coraggio la verità» perché solo «la verità vi farà liberi» (Gv 8,32).
Mentre iniziano a scrivere si avvicina a me un bambino: «Maestro sono stato io ma non avevo il coraggio di dirlo». E subito gli rispondo: «non ti preoccupare, tu scrivi tranquillamente sul fogliolino perché il tuo contributo è prezioso e importante tanto quanto quello del tuo compagno/a».
Qualche minuto e, quando noto tutte le matite depositate, ritiro e inizio a leggere: prima la parte anteriore (leggendo sempre nella declinazione maschile e femminile per non dare possibili indizi) poi passo alla parte dedicata al consiglio.


Qui si apre un mondo nel quale il consiglio diventa la miccia che innesca il senso dello stare insieme dove l’omertà (parola di cui siamo andati a scoprire il significato insieme) si sgretola da sola perché abbiamo imparato che «il problema degli altri è uguale al mio» (Lettera a una professoressa). I diversi consigli ci hanno insegnato che «chi sa volare non deve buttar via le ali per solidarietà coi pedoni, deve piuttosto insegnare a tutti il volo» (Esperienze pastorali).
Attraverso questa meravigliosa esperienza, nata senza alcun preavviso e senza alcuna progettazione, ha dato una svolta nuova alla settimana accogliendo come opportunità pedagogica quel raggio di luce che per tutti è stato fonte di ritrovata serenità: così mi sono reso davvero conto come davvero la scrittura collettiva, che in questo caso ha fatto solo un piccolo primo passo, è davvero una “cura” e un prendersi cura l’uno dell’altro. È proprio vero che il maestro è deve essere un «profeta, scrutare i “segni dei tempi”, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso» (Lettera ai giudici ).
Alla fine, dopo un’ora e mezza di tempo investito per crescere insieme e per capire che questa questione ci stava a cuore (I-CARE) e bisognava prendercene cura (WE-CARE) per costruire un alfabeto del “noi”, esclamo: «Ora sono contento perché mi sento a casa!»

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