Lo sviluppo del senso critico
attraverso la Scrittura Collettiva

La scuola oggi che cos’è? Nel migliore dei casi la scuola oggi rischia di diventare come la giara di Zi Dima: persegue una perfezione tecnica e didattica, senza accorgersi che potrebbe trovarsi nel giro di poco tempo ad essere imprigionata in sè stessa. Quando si resta chiusi dentro, si deve rompere tutto con il martello, proprio come è accaduto a Zi Dima.
Partendo da questa emergenza, ci interroghiamo sulle strade da intraprendere per sfuggire a questa trappola.
Quali sono gli aspetti della scuola che oggi funzionano meno? Quali sono le note che stonano di più?
Continuiamo a lamentarci dei nostri alunni, delle loro difficoltà, della loro distrazione, ma non riusciamo più a vedere il bello che c’è in ciascuno di loro. Ci riferiamo a un modello ideale che non esiste, esistono i bambini e i ragazzi che abbiamo di fronte e con i quali dobbiamo lavorare.
Forse è ora di abbandonare la pratica dell’ingozzamento cognitivo, e guardare con occhi diversi e slancio positivo le persone che sono, con fiducia nelle loro capacità di crescita.
La scuola di base deve formare il cittadino, non preparare in modo tecnico come avviene alle scuole superiori e all’università. I programmi non esistono più da tempo, ma restano ancore inamovibili nella mente e nella pratica dell’insegnante. Esistono traguardi di apprendimento e molteplici strade per raggiungerli, orchestrate nella libertà di insegnamento garantita dalla nostra Costituzione.
La scuola non è un’azienda e non può avere le stesse finalità e i principi ispiratori di un’azienda.
La conoscenza non può ridursi a un business per le case editrici. I docenti devono riprendersi la propria autonomia decisionale anche in materia di libri di testo: è inutile lavorare su ciò che non serve.
Gli alunni di oggi appaiono arricchiti di molte diverse abilità che attraverso la scuola possono diventare competenze accresciute dalla consapevolezza critica, in una pratica educativa che parta da loro, dal loro contesto di realtà con curiosità e attenzione amorevole da parte dell’insegnante.
Questo ci consente di immaginare una scuola “altra”, diversa dal nostro quotidiano, una scuola creativa.
Oggi più che mai dentro la scuola, nel rapporto con le famiglie e gli alunni, il giudizio è un tema caldo. Creare una relazione significativa con entrambi, alunni e famiglie, impone all’insegnante di spogliare il proprio habitus giudicante, almeno in una lunga fase iniziale di reciproca conoscenza. I giudizi creano barriere, la ricerca della prestazione produce ansia. La relazione scuola famiglia più che un’alleanza educativa rischia di diventare una grande fabbrica di ansia.

COSA VUOL DIRE EDUCARE?

Prendere consapevolezza di alcuni aspetti della relazione educativa nella scuola di oggi può aiutare a focalizzare l’attenzione degli insegnanti su trabocchetti e vie d’uscita, su possibili errori e strategie risolutive.
Osservare che l’educazione oggi è sempre più solo al femminile, e averne consapevolezza può evitare che la relazione diventi accuditiva, sopprimendo sul nascere la costruzione dell’autonomia del bambino, che inizia con la presa di coscienza di avere un bisogno, per poterlo esprimere, per cercare soluzioni e chiedere aiuto.
Stiamo creando occasioni che ci consentano la lettura del nostro operare in classe? Osservarci e osservare sono pratiche che richiedono tempi distesi e capacità di riflessione individuale e collettiva, come abbiamo sperimentato attraverso questo percorso di ricerca, azione e scrittura collettiva.
Possiamo importare i concetti, i contenuti culturali, gli obiettivi curricolari dentro una dimensione pedagogica nuova? Socrate e Don Milani ponevano il dubbio e l’intenzionalità della coscienza come prerogative dell’insegnante. In questa prospettiva, l’insegnante ha il compito di confutare e la sua eredità è in un certo senso, non sapere. Con questa disposizione pedagogica, assumendo la realtà e la cultura informale dei nostri alunni come punto e spunto di partenza, facendo nostro il principio di aderenza di Don Milani, possiamo intraprendere un viaggio diverso, che opera nel profondo anziché scalfire la superficie delle loro menti, come abbiamo constatato accadere dopo cinque anni di scuola elementare comunque ben fatta. Per partire dalla cultura informale del ragazzo, occorre innanzitutto conoscerla e comprenderla, o almeno accostarsi ad essa in atteggiamento di ascolto e osservazione, senza giudizi. Abbiamo constatato che questo approccio rivela grandi sorprese, e a tratti veri miracoli.
La distrazione dell’alunno diventa così motivo occasionale che mobilita attenzione e motivazione, raggiungendo il motivo profondo che solo produce vero apprendimento. Così, partendo dall’ambiente l’alunno organizza e costruisce le proprie conoscenze, accanto a lui l’insegnante è un regista e portatore di strumenti che accompagna, incoraggia, accende la curiosità, coglie e crea occasioni.
Come regista deve saper leggere la linea di tendenza del loro sviluppo, sia individuale che di gruppo, esercitando quella “preveggenza” che aiuta gli alunni a liberare il loro pensiero.
Avere presente che le ragioni giuste sono quelle dei poveri, non solo in senso economico, ma sempre più oggi in senso culturale, potrebbe livellare al ribasso la nostra azione di maestri. Serve una strategia di tiro alto: sto attento all’ultimo, ma lascio esplorare e lancio colui che comprende prima e meglio. Finché l’ultimo non ha capito non si va avanti, ma non si deve portare la classe al livello dell’ultimo.

LA PAROLA

Oggi il modo di comunicare e i contenuti che comunichiamo sono profondamente cambiati rispetto ad un passato anche recente e tendono a cambiare con una velocità prima sconosciuta.
La comunicazione veloce è necessariamente leggera e non accetta più testi pesanti; mail, fax, sms, condivisioni sui social network si sono imposti come modalità dominante e immediata di scambio di informazioni, di relazione con gli altri e di apertura al mondo, il tutto in un click mentre si è impegnati in un’attività multitasking.
Essere multitasking è l’orientamento del terzo millennio, eppure ciò nuoce sia a livello produttivo che cognitivo creando difficoltà, dispersione e dispendio di energie.
Allora perché non operare in “monotasking”, perché non essere “out”, in
controtendenza e scegliere, come strategia didattica efficace, la lezione dialogata, una relazione circolare partendo dalle parole, lavorando sulle parole e con le parole? È nel dialogo che lo studente e l’insegnante cercano la verità. Perché non cogliere l’opportunità di scambio di conoscenze e di comunicazione interculturale nelle nostre classi multietniche?
È solo attraverso il dialogo che progrediamo, ci incontriamo, e ritorna la voglia di parlarci in un mondo sempre più virtualmente connesso.
Perché scrivere? L’immersione (diremmo quasi l’innamoramento) nell’atto dello scrivere trova il suo senso nella finalità, nella funzionalità del gesto comunicativo. Scrivere con uno scopo, a qualcuno, per dire qualcosa, qualcosa che ci appartiene, cambia alla radice l’atteggiamento di chi scrive.
Scrivere fa bene alla mente e al cervello, alla salute psicofisica. L’arte dello scrivere si può apprendere ed insegnare e il tempo che si trascorre per insegnare/imparare a padroneggiarla è sempre tempo non sprecato.
È il tempo passato a scrivere e a dialogare sui significati a creare le competenze.
Oggi ritornare alla parola può essere un importante punto di partenza.

IL TEMPO A SCUOLA


La scuola odierna, come buona parte della società, è condizionata dal mito della velocità, della competizione, del tutto e subito in tempo reale. Stretti fra le esigenze di una preparazione sempre più performante e complessa, che fatica a decodificare una realtà a sua volta sempre più complessa, ci si fa prendere dalla didattica, dai “programmi” (ovvero dai suoi contenuti), dalle verifiche, dalle prove Invalsi e si corre troppo. La scuola spesso non rispetta i tempi di apprendimento degli alunni, costringendoli ad una spasmodica corsa finalizzata al raggiungimento di obiettivi.
A scuola “bisogna perdere tempo, per guadagnarne”, quello che sembra tempo perso, è in realtà il modo più idoneo per favorire l’apprendimento e la crescita degli alunni.
Cosa vuol dire “scuola”? Da che cosa deriva? Da un concetto di tempo.
Scholè è il tempo dell’indugio, della lentezza, è il tempo liberato dalle fatiche.
E’ il tempo della riflessione, dell’attenzione, che, partendo dall’atteso imprevisto o motivo occasionale, penetra nei nuclei fondanti le discipline, non è tempo che corre. È Scholè.
L’allarmante proposta circolata negli USA, 3 giorni a casa con un CD che fornisce le lezioni, ci conduce ad una visione aziendale della scuola e dell’azione educativa. Il pc è un valido strumento per supportare l’attività didattica, ma non potrà mai sostituire il lavoro di un insegnante e di un gruppo classe non virtuale.
Quanto sono disposto a rallentare, a perdere il tempo, per ritrovarlo come apprendimento reale? Ricordiamoci che i programmi non esistono più, esistono solo traguardi di apprendimento.

RITUALITÀ


Oggi assistiamo ad un pericoloso calo della socialità in favore di un individualismo diffuso e acceso,e alla scomparsa del sentimento come elaborazione culturale e sociale dell’emozione.
Le nuove generazioni ci testimoniano che stiamo perdendo un elemento fondante della convivenza e della condivisione umana: la ritualità. Si assiste al progressivo impoverimento di quei momenti, costitutivi del nostro essere viventi, che sono in grado di rispondere ad esigenze di benessere individuale e sociale. Pensiamo ad esempio a come stanno cambiando i luoghi e i tempi legati ai riti del cibo e del sonno, a partire dall’età infantile e fino all’adolescenza. Si mangia per riempire il corpo? A fronte di tanti progetti di educazione alimentare facciamo fatica a dare nuova linfa ad un momento che diventa sempre più difficile da gestire: il pranzo a scuola.
Rifiuto o selettività eccessiva nell’accettare il cibo preparato, problemi di intolleranze, diete particolari, spreco alimentare, ambienti in cui si sosta e ci si nutre immersi in un clima molto poco silenzioso e che poco facilita lo scambio comunicativo.
Perché non dare la possibilità di poter scegliere, tra una rosa di proposte di alimenti, cosa mangiare? Perché non sviluppare benessere ed autonomia istituendo dei self-service fin dalla scuola primaria? Perché non immaginare soluzioni diverse da quelle di un’enorme sala mensa? Non è impossibile, esistono già degli esempi a cui guardare (ad esempio la mensa self-service in Finlandia).
Pensiamo inoltre alle valenze simboliche che il gesto del nutrire porta con sé: non dovremmo imboccare, ma stimolare e guidare gli alunni a diventare consapevoli delle relazioni che ci legano al nostro corpo, agli altri, alla Terra.
La cosiddetta “pappa pronta” non è mai educativa, nemmeno da un punto di vista cognitivo. L’ingozzamento, alimentare o didattico che sia, porta a preparare un sacrificio che non giova a nessuno: non si fa così per ingrassare gli animali da macellare?

CORPO E MOVIMENTO


Tutta la nostra esperienza didattico-educativa ci insegna che quando utilizziamo metodi e strategie che coinvolgono la dimensione non solo intellettiva ma anche corporea dei nostri alunni, l’esperienza di apprendimento risulta facilitata e più efficace dal punto di vista del raggiungimento dei traguardi che ci si è posti.
Tuttavia la scuola è ancora molto centrata sulla lezione frontale e sulla richiesta di un ascolto quasi permanente durante molte ore trascorse seduti, in atteggiamenti “consoni” e adeguati al compito che si sta svolgendo.
A volte pensare di lasciare gli alunni più liberi di muoversi senza perderli di vista sembra impossibile.
Difficilmente si va fuori, si esce per apprendere. Difficilmente guidiamo i nostri alunni a leggere nel libro della realtà che li circonda molto da vicino. Pensiamo ad esempio alla divisione tra il luogo della scuola e quello del territorio comunale di appartenenza, con la sua ricchezza di stimoli, di significati e di testimonianze. Guidarli a cogliere ed apprezzare il gusto estetico che nei secoli ha indotto l’uomo a plasmare i luoghi e gli ambienti, a scoprire che le pietre possono imparentarsi come le parole.
Non dimentichiamo che gli alunni hanno un corpo che non è unicamente da “gestire”, ma che deve anche muoversi e stare bene. Corpo che rischia di essere altrimenti invisibile, dimenticato o al massimo da controllare o da anestetizzare.
Valorizzando il corpo del discente se ne promuove il protagonismo e si dà spazio alla dimensione progettuale dell’apprendere.
Giuseppe Paschetto è un docente di matematica in corsa per il Global Teacher Prize (Nobel per l’insegnamento); insegna alla scuola secondaria di primo grado di Mosso, in provincia di Biella. Afferma: “Ho tolto voti, libri, compiti e facciamo lezione in collina (…) faccio sì che siano gli studenti a scoprire le cose (…). Cerco di acchiappare l’interesse degli alunni sul piano emozionale, prima e più che su quello cognitivo”.
Perché non lasciarci provocare da questo collega e non provare e seguire il suo esempio. Qui puoi trovare il materiale giusto.

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