“Maria Miceli, la scuola come atto d’amore e giustizia non può essere neutra”

“Per lei insegnare non era solo trasmettere nozioni, ma coltivare sguardi, costruire ponti, accendere scintille”. “La scuola non può essere neutra”. Sono solo due delle frasi che Maria Miceli ha lasciato come eredità morale agli insegnanti, soprattutto di oggi. Due frasi che racchiudono la visione educativa della mamma Maria: la scuola non era un semplice luogo di apprendimento, ma uno spazio di relazione, di crescita e di cambiamento profondo. Un luogo di suo impegno civile: per Maria Miceli, educare significava schierarsi contro le ingiustizie, dare voce a chi era escluso e trasformare l’insegnamento in uno strumento di equità sociale.

Ma la frase forse più significativa e rappresentativa che le due figlie Mimma e Elvira hanno voluto ricordare è di un suo alunno: “Se oggi non sono finito male, è colpa sua, professoressa”. Questa frase, scritta da un ex studente in una lettera, rappresenta l’impatto che Maria ha avuto sulla vita di chi rischiava di essere dimenticato. La sua capacità di vedere e valorizzare ogni bambino ha fatto la differenza.E infatti ci sono insegnanti che lasciano un segno. Non solo nei registri o nei programmi svolti, ma nelle vite. Maria Miceli era una di queste insegnanti. Maestra per profonda vocazione e per determinata scelta, ha creduto fino all’ultimo che la scuola potesse – e dovesse – essere un luogo di accoglienza, di giustizia, di trasformazione. Per lei, educare significava soprattutto guardare ai bambini, soprattutto se invisibili, ultimi, e restituire loro voce, dignità, futuro.
Ma Maria Miceli è anche la sua storia, che presto sarà fissata in un libro. Qualcosa di più di un ricordo personale: è un viaggio attraverso la sua memoria, una memoria che si fa “resistenza, forza, e speranza”. In questo libro Maria Miceli “si rifugia nel ricordo delle sue radici, nel mondo che l’ha formata, riscoprendo così la propria forza interiore”. È lì, in quel mondo del Sud, che nasce la sua vocazione di insegnante e la sua visione pedagogica.

Da sinistra, Giulia Costanzo, Rita Fumagalli e le due figlie di Maria Miceli, Elvira e Mimma

Anche di questo libro abbiamo parlato, incontrando Mimma e Elvira, le figlie di Maria Miceli, per ripercorrere insieme il cammino umano e professionale di Maria. Un dialogo fatto di ricordi, immagini, parole che ancora oggi, come quelle scritte dalla stessa maestra Maria poco prima di andarsene, continuano a indicarci una strada possibile: quella di una scuola che non si rassegna, che sceglie ogni giorno da che parte stare: “Non si può fare scuola restando neutrali. Bisogna schierarsi. Sempre. Con gli ultimi” spronava Maria. E questa frase non è un manifesto, ma un’eredità. È il cuore pulsante di un ultimo scritto di Maria Miceli, in cui è sintetizzata la sua visione della scuola come spazio politico, etico e umano, dove il compito dell’insegnante non è solo trasmettere nozioni, ma costruire coscienze, soprattutto laddove c’è più fragilità. E ispirandosi al pensiero e all’esempio radicale di don Lorenzo Milani, da una scuola elementare di Lamezia Terme, intitolata a don Milani Maria, ha sempre rivendicato il diritto – e il dovere – di mettersi dalla parte dei più deboli. La scuola, per lei, non è mai stata un luogo neutro. È, al contrario, il primo presidio di democrazia, e come tale non può permettersi di escludere nessuno. “La scuola o è di tutti o non è” scrive, rilanciando le parole del priore di Barbiana.

– Tutto dei ricordi di vostra mamma Maria racconta di una donna che ha trasformato la scuola in un luogo di accoglienza, fiducia e possibilità. Qual è la prima immagine che vi viene in mente quando pensate a vostra mamma come maestra?
La vediamo immersa in un piccolo universo fatto di libri, quaderni, lettere di genitori, disegni dei bambini e oggetti che raccontano storie. Era il suo mondo. Sempre con qualcosa da fare, il volto concentrato e lo sguardo acceso: la mente in fermento, il cuore aperto. Ma la sua vera aula andava oltre le pareti della scuola. Anche a casa, bastava osservarla mentre ci raccontava una storia o commentava qualcosa che le era accaduto durante il giorno o un passo di un libro appena letto per capire che insegnare era la sua vocazione profonda. Era una maestra che non imponeva ma guidava. La ricordiamo seduta accanto a un bambino in difficoltà, con lo sguardo attento e il tono calmo. Ascoltava prima di parlare. Aveva la rara capacità di far sentire ogni bambino importante, ogni bambina vista, accolta. Tutto questo accadeva non con la forza del ruolo ma dell’empatia. Una carezza, una parola giusta, un sorriso lieve ma potente: così costruiva fiducia. Credeva che ogni occasione fosse buona per imparare e che ogni errore fosse un seme di crescita. Come Don Lorenzo Milani, era convinta che “la scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde”, e faceva di tutto per non perdere nessuno. Per lei insegnare non era solo trasmettere nozioni, ma coltivare sguardi, costruire ponti, accendere scintille. Era – ed è ancora nei nostri ricordi – una maestra con sguardi aperti ed il cuore al centro di tutto.

Come raccontava a casa la sua giornata a scuola? Che cosa vi colpiva di più dei suoi racconti?
Quando nostra mamma tornava a casa da scuola, non sembrava mai semplicemente rientrata dal lavoro ma da un piccolo viaggio nell’animo umano. Raccontava tutto con la passione di chi non ha vissuto solo una giornata ma un frammento di vita intensa. La scuola non finiva al suono dell’ultima campanella, continuava nei suoi occhi e nel tono della sua voce quando, ad esempio a cena, ci parlava dei suoi alunni. Ci colpiva il modo in cui riusciva a dare valore a ogni dettaglio: uno sguardo sfuggente, una frase detta per la prima volta da un bambino silenzioso, un piccolo gesto di solidarietà tra compagni. Per lei, tutto era significativo, tutto meritava attenzione. “Oggi Carmine ha detto la sua prima frase completa”, diceva con un’emozione che sapeva di vittoria storica. E per noi lo diventava davvero. Parlava dei suoi alunni come di piccoli eroi, ciascuno con la propria battaglia da combattere. La colpivano i silenzi dei più fragili, la lentezza delle istituzioni, le ingiustizie che si ripetevano, spesso senza che nessuno le vedesse. Ma lei le vedeva, le sentiva, le portava a casa come si portano tesori e ferite. Ci colpiva la sua capacità di indignarsi e commuoversi ogni volta come fosse la prima. Per nostra mamma non c’era separazione tra il lavoro e la persona: la scuola era parte di lei. Credeva profondamente, come Don Milani, che “non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”, e si impegnava ogni giorno a dare a ciascuno ciò di cui aveva davvero bisogno. I suoi racconti erano lezioni di umanità, di ascolto e di giustizia. E forse la cosa che ci colpiva di più era proprio questo: il suo sguardo capace di vedere non solo ciò che i bambini erano, ma ciò che potevano diventare.


– Cosa pensate l’abbia spinta a diventare una insegnante? Era una vocazione che sentiva da sempre?
Sì, era una vocazione genuina. Una di quelle che non si scelgono per caso, ma che crescono lentamente, come un seme piantato nell’infanzia. Le radici di nostra madre come maestra affondano in un tempo lontano, in quelle vecchie aule fredde dove ha imparato presto cosa significa l’ingiustizia. Da bambina, ad esempio, vedeva compagne bocciate non perché incapaci ma perché povere. Ricordava quelle giornate come un tempo di dolore silenzioso, in cui chi aveva più bisogno era spesso lasciato indietro, umiliato o dimenticato. E forse proprio allora, senza saperlo, ha cominciato a decidere chi sarebbe diventata. Diceva: “Forse le mie radici di maestra affondano lì, in quelle esclusioni, in quelle ferite altrui che sentivo anche mie”. Giocava sul muretto della chiesa fingendo di insegnare ai bambini più piccoli, ma quello non era solo un gioco: era già un atto di cura, di riparazione, un primo gesto di ciò che sarebbe stato il suo impegno più profondo. Per lei la scuola non era un mestiere, ma una missione civile. Cresciuta in un contesto in cui l’istruzione era un privilegio, aveva scelto di trasformarla in un diritto. Come Don Milani, credeva che “è solo la lingua che rende uguali. Uguale è chi sa esprimersi e intendere l’espressione altrui”, e per tutta la vita si è impegnata a dare voce a chi non l’aveva, ascolto a chi era ignorato, spazio a chi veniva escluso. La sua vocazione non era fatta di parole altisonanti, ma di scelte quotidiane, di sguardi attenti, di ostinata fiducia nel potenziale di ogni bambino. Era una maestra fin da bambina. Solo che allora, nessuno lo sapeva ancora.

Nel testo-documento che aveva scritto a supporto di una mozione contro il ridimensionamento del suo istituto, vostra mamma dice: “La scuola non può essere neutra”. Cosa significava per lei questa affermazione?
“La scuola non può essere neutra” non è solo una dichiarazione o una frase ma rappresenta il suo modo di essere maestra. Per lei, la scuola era un presidio di giustizia sociale, un luogo in cui si costruisce la cittadinanza, si coltiva la coscienza critica, si afferma il diritto di ogni bambino e ogni bambina a essere ascoltati, compresi, rispettati, “vivi e ribelli”. Neutralità, per lei, era un’altra forma di complicità. Non si poteva essere neutri di fronte all’ingiustizia, alla disuguaglianza, alla povertà educativa. Ogni gesto educativo, anche il più semplice — un tema, una lettura, un compito assegnato — era, nel suo sguardo, un atto politico nel senso più nobile del termine. Diceva spesso: “La scuola è della Costituzione, non dei programmi ministeriali”, perché credeva che l’insegnamento dovesse partire da valori profondi, non da adempimenti formali. Come Don Milani, era convinta che “sortirne tutti insieme è politica, sortirne da soli è avarizia”. Ed è per questo che si impegnava a costruire una comunità scolastica inclusiva, solidale, dove ogni voce potesse trovare spazio, anche — e soprattutto — quelle più flebili. Per lei educare significava schierarsi, assumersi la responsabilità di lottare contro ciò che esclude, che discrimina, che lascia indietro. La sua scuola non era mai neutra: era viva, palpitante, responsabile. Una scuola che sceglie, che si espone, che si prende cura. Una scuola che non ha paura di dire da che parte sta: dalla parte dei fragili, dei dimenticati, di chi ha bisogno di più per avere il diritto di essere uguale.


– Spesso Maria parlava degli ultimi, dei più fragili, come dei veri “portatori di cambiamento”. Come metteva in pratica questo sguardo nella sua attività quotidiana e a scuola?
Per nostra mamma, gli ultimi non erano un’eccezione da gestire ma la chiave per ripensare l’intero sistema educativo. Li considerava “portatori di cambiamento” perché costringevano la scuola a interrogarsi, a mettersi in discussione e, dunque, a rinnovarsi. Aveva uno sguardo che non cercava l’eccellenza nei voti alti, ma nelle piccole conquiste quotidiane di chi, partendo da più lontano, trovava finalmente un modo per esprimersi, per esserci. Li metteva al centro, ogni giorno, in modo concreto. Nelle sue classi, e poi come dirigente, partiva sempre dai bisogni dei più fragili. Non erano mai considerati un “problema”, ma una bussola. Organizzava laboratori su misura, adattava materiali, coinvolgeva le famiglie, costruiva reti. Cercava strade nuove quando quelle vecchie non bastavano più o non erano più percorribili. Come Don Milani che insegnava il latino ai figli dei contadini, anche lei rompeva gli schemi, sfidava le aspettative, credeva che l’intelligenza fosse diffusa e che la fragilità fosse un linguaggio da imparare, non un limite da correggere. Non si accontentava dei risultati misurabili perché voleva fortemente che ogni bambino trovasse il proprio spazio e la propria voce. In ogni consiglio di classe, in ogni collegio docenti, portava con forza la voce dei più silenziosi, di chi rischiava di restare indietro. Per lei la scuola era cura, presenza, relazione. Era convinta che “se si perdono i ragazzi più difficili, la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati”, e faceva di tutto perché nessuno venisse escluso. Aveva la rara capacità di vedere la bellezza dove altri vedevano ostacoli. Trovava nel bambino fragile non solo qualcuno da aiutare ma qualcuno da ascoltare e da cui imparare. Perché chi vive il limite conosce anche il valore della solidarietà, della lentezza, dell’essenziale.
E così trasformava la classe: dal centro verso le periferie  e dalle periferie verso il cuore. Aveva uno sguardo che salvava. E una scuola che salva comincia sempre dagli ultimi.

Maria parlava di una scuola che “non lascia indietro nessuno”. Avete un ricordo concreto o una storia in cui lei ha davvero fatto la differenza per qualche studente “invisibile”?
Sì, di ricordi ne abbiamo davvero tanti. Ma ce n’è uno che ci torna sempre in mente ogni volta che pensiamo a cosa significasse davvero, per nostra mamma, “non lasciare indietro nessuno”. Si chiamava Salvatore. Un ragazzino che tutti definivano “irrecuperabile”, con alle spalle una storia familiare dura, piena di assenze, silenzi, rabbia. Nessuno lo voleva più in classe. Nessuno, tranne lei. Mamma lo accolse nella sua scuola con la naturalezza di chi non fa favori, ma giustizia. Gli costruì attorno un percorso personalizzato, coinvolse i servizi sociali, parlò con gli insegnanti, adattò le regole — non per favoritismi, ma per creare condizioni reali di accesso. Fece lo stesso con altri ragazzi “invisibili”. Ricordiamo un altro studente con una situazione difficile a casa, sempre irrequieto e sempre escluso. Lei non lo punì, non lo respinse. Lo rese “custode” della biblioteca della scuola. Gli affidò una chiave, una responsabilità. Lui si sentì importante. Cominciò a venire a scuola ogni giorno ed alla fine dell’anno le disse: “Per la prima volta io mi sento utile”. Anni dopo, Salvatore le scrisse una lettera: “Se oggi non sono finito male, è colpa sua, professoressa”.  Quel biglietto restò per molto tempo sul suo comodino. Un altro studente tornò a scuola da adulto e le disse semplicemente: “Se oggi sono quello che sono, è grazie a lei”. Come Don Milani, mamma era convinta che “la scuola ha un problema solo: i ragazzi che perde”. E lei non voleva perderne nemmeno uno. Non sempre ci riusciva — lo sapeva — ma ogni giorno ci provava con tutta se stessa. Perché per lei nessuno era “irrecuperabile”. Bastava ascoltare, accogliere, credere. E lei ci credeva. Sempre.


– Come affrontava le difficoltà del sistema scolastico? Trovava spazi di libertà o di resistenza? Avete qualche esempio con cui Maria ha dimostrato la “non neutralità” di essere maestra, insegnante?
Nostra mamma era, prima di tutto, una maestra resistente. Di quelle che non si piegano, ma cercano spiragli di luce anche nelle crepe di un sistema rigido, spesso cieco alle reali esigenze di chi vive la scuola ogni giorno. Affrontava le difficoltà con coraggio e, a volte, da sola. Non per ostinazione, ma per coerenza. Era convinta che la scuola dovesse essere un luogo umano, vivo, capace di accogliere e trasformare. Diceva spesso: “Una scuola senza cuore non ha senso.” E non ha mai rinunciato a mettercelo, quel cuore, anche quando il prezzo da pagare era alto. La sua non era una ribellione urlata, ma una resistenza quotidiana, concreta. Ha lottato contro il ridimensionamento del suo istituto, opponendosi a una logica aziendalista che toglieva voce ai territori e identità alle comunità scolastiche. In quella battaglia ha scritto un testo lucido, profondo, dove affermava: “La scuola non può essere neutra.” Perché per lei neutralità significava accettare le ingiustizie senza reagire. E lei non ha mai accettato. Trovava spazi di libertà nel dialogo, nella partecipazione, nella progettazione condivisa. La sua stanza di presidenza era un luogo aperto, dove si parlava, si decideva insieme, si sognava. Organizzava laboratori fuori dagli schemi, giornate in campagna, assemblee di ascolto, momenti collettivi in cui la scuola tornava ad assomigliare a una comunità.
Come Don Milani, credeva che il maestro dovesse essere anche profeta, capace di scrutare i “segni dei tempi”, di intuire nei ragazzi ciò che sarebbe potuto sbocciare domani. E lei ci provava, ogni giorno, anche quando il sistema spingeva nella direzione opposta. Pagò caro, a volte, questo suo essere fuori dal coro. Ma non ha mai smesso di credere che la scuola pubblica potesse – dovesse -essere uno spazio di resistenza, giustizia, possibilità. Perché per lei, essere maestra non era un mestiere: era una posizione nel mondo.

Cosa pensate resti oggi della sua presenza nella scuola e nella comunità che ha abitato? Ha più ricevuto messaggi o testimonianze da suoi ex alunni, genitori o colleghi?
Resta tantissimo. Resta nel modo in cui ancora oggi, a distanza di anni, si parla di lei. Ex alunni, genitori, colleghi ci scrivono, ci raccontano di come una sua parola abbia fatto la differenza, di come un semplice consiglio li abbia accompagnati nei momenti decisivi della loro vita. C’è chi ricorda un gesto, un sorriso, un’attenzione che ha fatto sentire qualcuno visto per la prima volta. La sua scuola è ancora viva nei cuori di chi ha imparato da lei a non lasciare indietro nessuno, a lottare per ogni bambino, per ogni persona. Non c’è giorno in cui qualcuno non ci racconti: “Vostra madre mi ha cambiato la vita”. Le sue parole continuano a risuonare nei corridoi, nei progetti, nei cuori. Ci sono ex alunni che oggi, da adulti, si rivolgono a noi per ringraziarla, per dire che le sue lezioni non sono mai state dimenticate, che il suo sguardo di accoglienza e giustizia li ha guidati nei momenti più difficili. Una sua ex alunna, che oggi è insegnante, ci ha scritto: “Ogni volta che entro in classe, penso: Maria direbbe così”. La sua idea di scuola – come impegno civile, come luogo affettivo e di crescita – continua a vivere nella comunità che ha costruito. E non è mai stata una scuola solo di libri e compiti, ma di relazioni, di ascolto, di cambiamento. La sua presenza è ancora forte, perché è quella di chi non ha mai visto la scuola come un lavoro ma come una vocazione. E questa vocazione ha seminato radici che continuano a germogliare.


– Se poteste riassumere in una frase la sua missione educativa, quale potrebbe essere?
Se dovessimo riassumere in una frase la sua missione educativa, diremmo che per lei “educare è un atto d’amore e di giustizia: guardare il mondo con gli occhi di chi resta indietro e tendergli la mano”. Era una visione che non separava mai l’insegnamento dalla vita, che metteva al centro il bene comune e l’impegno per chi era più fragile. Non solo un’educazione teorica, ma una pratica quotidiana di attenzione e di cura. Come avrebbe detto lei stessa, citando don Milani: “I care” -“Mi sta a cuore”. Ogni alunno, ogni storia, ogni difficoltà: per nostra mamma tutto aveva un valore, e tutto meritava di essere ascoltato, compreso e supportato. Un’altra frase che rappresenterebbe perfettamente la sua filosofia sarebbe: “Educare è amare senza riserve, senza paura di sporcarsi le mani.” Non si accontentava di fare il suo dovere, ma si metteva in gioco ogni giorno per ogni bambino senza mai tirarsi indietro. Come avrebbe parafrasato Don Milani: “Ho avuto la fortuna di essere diversa e l’ho messa al servizio degli altri.” Per lei, l’educazione non era mai un compito impersonale. Era una missione che la impegnava totalmente e che richiedeva una relazione profonda, un impegno a guardare oltre le apparenze e a saper riconoscere e valorizzare ogni singolo individuo. Questa sua visione dell’educazione era una vocazione che non temeva le difficoltà, ma le affrontava come opportunità di crescita reciproca, per lei e per chi insegnava. Per lei, ogni lezione, ogni piccolo passo compiuto insieme agli studenti, non era mai solo un progresso accademico, ma un atto di giustizia, un gesto di amore che aveva il potere di cambiare il mondo, un bambino alla volta.

In che modo il suo esempio continua a vivere in voi figlie, nella vostra famiglia o in chi l’ha conosciuta?
Il suo esempio continua a vivere in noi ogni giorno, nei nostri occhi che cercano di vedere oltre le apparenze, nel nostro modo di ascoltare e di resistere e di sperare di fronte alle difficoltà. Ci ha insegnato ad avere fame di giustizia e di bellezza, a non accettare mai il mondo così com’è, ma a lottare per cambiarlo. Ed oggi, da adulte, nella nostra quotidianità portiamo con noi quella passione che abbiamo respirato grazie a lei fin da bambine, quella passione che mamma ci ha trasmesso con l’esempio di una intera vita. Continuiamo a prenderci cura delle persone, dei luoghi, dei nostri sogni. Ci ha insegnato a non arrenderci mai, a credere sempre nel cambiamento, anche quando sembra impossibile. La sua eredità vive nei nostri sguardi, nelle scelte che facciamo quotidianamente, nel modo in cui ci prendiamo cura degli altri. Vive nella nostra capacità di indignarci di fronte alle ingiustizie, nel nostro desiderio di costruire una società più giusta e solidale. Vive in ogni gesto quotidiano che ripete quelli che abbiamo visto in lei: la cura per i dettagli, l’amore per la parola scritta, il coraggio di non arrendersi mai, di non fermarsi davanti agli ostacoli. La sua forza continua a illuminare il nostro cammino, a farci vedere l’importanza di essere sempre fedeli ai propri valori. In ogni passo che facciamo, in ogni scelta che prendiamo, c’è una parte di lei, una parte di quel suo amore infinito per l’educazione, per la giustizia, per ogni essere umano, per noi. E questo non finirà mai. Continueremo a portarla con noi, sempre.


Maria Miceli ha scritto anche un libro, una raccolta di testi a testimonianza della sua ricca esperienza di insegnante. Voi, come figlie, lo state curando editorialmente per poi pubblicarlo e condividerlo con il pubblico non solo della scuola. Ci anticipate qualche contenuto e lo spirito di quel testo?
Il libro, scritto durante i lunghi giorni della sua malattia, va ben oltre la semplice testimonianza di una carriera di insegnante perché nostra mamma ha attraversato la scuola con uno sguardo radicale e umano, portando dentro le aule il peso e il dono della propria storia. In questo libro si intrecciano infanzia, lotta educativa, amore per i fragili, parole di Don Milani e pagine di giustizia: dalle aule fredde del dopoguerra alla scrivania di dirigente scolastica, dalle umiliazioni taciute alle carezze date ai “bambini invisibili”.
Il testo, che stiamo curando per la pubblicazione, è molto più di un ricordo personale: è un atto d’amore, di resistenza, e di impegno civile. Il testo è un viaggio attraverso la sua memoria, una memoria che si fa resistenza, forza, e speranza. Mamma si rifugia nel ricordo delle sue radici, nel mondo che l’ha formata, riscoprendo così la propria forza interiore. La prima parte del libro ci porta nel Sud Italia, in un paese povero del dopoguerra, dove la scuola era un presidio di resistenza contro l’ignoranza e le ingiustizie. Si racconta di bambine bocciate non per mancanza d’intelligenza, ma per una povertà che le escludeva. Di una scuola che non era mai neutrale. È lì che nasce la sua vocazione di insegnante e la sua visione pedagogica: una scuola che non solo istruisce, ma accoglie, cura e  combatte ogni forma di discriminazione. Le parole di Don Milani, che le risuonavano costantemente nella mente, diventano faro di questa visione: La scuola è solo quella che salva”. Quella scuola che mamma ha cercato di costruire ogni giorno, accogliendo i fragili, lottando contro ogni tipo di ingiustizia. La seconda parte del libro si concentra sul mestiere dell’insegnante e, successivamente, di dirigente scolastico, in un viaggio che attraversa contesti difficili, marginali e a volte dolorosi.
Racconta come la scuola possa diventare un presidio di civiltà, un luogo dove ogni bambino può trovare dignità e opportunità di crescita. La sua esperienza non è mai separata dalla vita reale, dalla maternità, dagli affetti, dal sacrificio quotidiano. Ogni momento di scuola è legato alla vita sociale e umana, in un intreccio di cura, impegno e amore. Il libro è scritto con la limpidezza e la sincerità di chi ha vissuto sulla propria pelle la fatica di essere maestra, di lottare contro il sistema e di non arrendersi mai.
La narrazione è autentica, senza fronzoli, ma anche delicata, spesso poetica, capace di trasmettere emozioni forti e sentimenti universali. Le sue parole non sono mai solo parole, ma azioni, ideali, sogni da realizzare. È un testo da leggere con calma, riflettendo su ogni frase, perché non è solo una raccolta di esperienze, ma una dichiarazione di intenti. Un atto civile che ci ricorda che la scuola può, e deve, essere uno strumento di cambiamento sociale.
Nostra mamma, come Don Milani, ha pagato per aver detto “no” alle ingiustizie. E, come lui, ha trasformato la sua vita in un atto educativo che non è mai stato neutro, ma sempre radicale, sempre impegnato. Questo libro è il testamento di una donna che ha lottato per una scuola giusta, cercando di trasformare ogni difficoltà in un’opportunità di crescita. Un libro che ci lascia un’eredità di giustizia, amore e coraggio. Perché educare, scrive mamma, “è un atto di amore disarmato”.


Se poteste dire qualcosa a vostra mamma oggi, come figlie ma anche come cittadine che credono in una scuola migliore, che cosa le direste?
Le diremmo: Mamma, il tuo esempio è ancora qui con noi. Ci guida in ogni passo. In fondo, non te ne sei mai andata: sei dentro ogni scelta, ogni parola, ogni gesto. Continueremo a credere nella scuola che sognavi, una scuola che accoglie senza riserve, che ascolta senza giudicare, che non ha paura di mettere al centro le fragilità e le differenze. Sei stata la nostra prima maestra, quella che ci ha insegnato a guardare il mondo con occhi nuovi. E lo sarai per sempre. Le diremmo anche che siamo fiere di te, fiere di tutto ciò che hai costruito, fiere di come ci hai insegnato a lottare per la giustizia.
Siamo diventate donne libere, forti e appassionate grazie a te. E non c’è lascito più grande.
E, infine, le diremmo semplicemente: ci manchi, mamma.

C’è un oggetto, una frase, un gesto che per vostra mamma, come insegnante, racchiudeva tutta la sua idea di scuola?
C’è un gesto che, secondo noi, racchiude tutta la sua idea di scuola: una mano sulla spalla. Lo faceva spesso, in silenzio, un tocco lieve che diceva tutto senza parole: “Io sono con te”. Era il modo più semplice, ma anche il più profondo, per far sentire ogni bambino accolto, visto, supportato. Per lei, l’oggetto che meglio rappresentava la scuola era un libro. Magari con la copertina foderata di carta blu, come ci raccontava spesso, a ricordarci che l’istruzione è un bene prezioso, da proteggere e curare. Il libro era la porta su un mondo migliore, uno strumento per formare non solo menti, ma anche coscienze. C’era anche una frase che le stava particolarmente a cuore: “La scuola è aperta a tutti, e non lascia indietro nessuno”. Non era solo un insegnamento, ma un vero e proprio vangelo laico che guidava ogni sua azione, ogni scelta, ogni passo in classe. Un impegno concreto verso una scuola inclusiva, capace di accogliere tutti, senza distinzioni. E poi ci sono le immagini, quelle che per lei racchiudevano un significato profondo. Come quella piccola libreria di Catanzaro che fece credito a nostro nonno per comprare i libri scolastici: un gesto di fiducia che rifletteva uno spirito generoso e solidale. Infine, c’è una frase che per lei diceva tutto: “Prenditi cura”. Lo diceva per tutto: per i libri, per le persone, per gli animali, per i sogni. “Prenditi cura” non era solo un invito, ma un comandamento educativo. Era il suo modo di educare: con mani che toccavano, accoglievano, aggiustavano; con occhi che vedevano davvero, e un cuore che comprendeva. Era così che costruiva la sua scuola e la sua comunità: non solo insegnava, ma amava.

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