Mettersi in ascolto dei ragazzi, un’attenzione che manca sempre più già dentro la famiglia

Abbiamo avuto modo di riflettere, nel precedente articolo sul tema del malessere che spesso vediamo nel volto dei nostri adolescenti, ma non solo, e quindi di quanto è necessario comprenderlo per trasformarlo, attraverso la cura, in una relazione autentica per la quale è indispensabile «tempo, disponibilità e pazienza» .
Ebbene, all’interno di una famiglia, la cura dei figli passa quotidianamente dalle mani della madre e del padre: e secondo le indicazioni di Giovanni Paolo II, il compito fondamentale della famiglia è di «essere al servizio della vita» (Familiaris consortio, 28).
Capita sovente di sentir parlare di una sorta di “iper-cura” verso i nostri bambini e ragazzi, come se i genitori di oggi tenessero i propri figli sotto la cosiddetta “campana di vetro”, immagine del microcosmo del grembo materno nel quale il piccolo si trova a suo agio e si sente bene. Ma quando questo “piccolo” diventa “grande”, come potrà stare bene dentro un ambiente che per forza di cose diventa sempre più stretto? Addirittura, cosa succede quando iniziano i primi confronti e si intravedono nel vetro alcune crepe che all’improvviso esplodono e si frantumano? Se l’uscita da questo mondo per l’infante è segnata dal pianto e semplice coccole o la presenza di qualcuno può rasserenarlo; l’uscita dell’adolescente è accompagnata non più dal pianto ma dalla disperazione e dall’isolamento che difficilmente trovano un adeguato sostegno.

E allora, la cura non è più la strada giusta? Forse non intendiamo correttamente la “sana protezione”, che erroneamente va alla deriva mutando in “iper-protezione”? Trovare l’equilibrio ideale tra alti e bassi, controllo e libertà, sicurezze e incertezze, protezione e autonomia, per accompagnarli durante tutto il loro sviluppo è un delicato compito che non prevede un decalogo pronto all’uso. L’iperprotezione non è semplicemente un “eccesso di protezione”, ma piuttosto una protezione “mal gestita”. Tutti gli esseri umani, fino alla maggiore età (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, art. 24), devono essere protetti poiché non sono pienamente consapevoli dei pericoli, quindi è necessario che i genitori stabiliscano alcuni limiti che li possano mantenere al sicuro.


Tuttavia, molti genitori esagerano in termini di protezione in quanto lo stile genitoriale è improntato interamente sulla paura. Il padre o la madre iperprotettivi provano un terrore assoluto alla prospettiva che possa accadere qualcosa al figlio, negandogli di riflesso la libertà e l’autonomia di cui ha bisogno. Di conseguenza l’iperprotezione genitoriale implica una proiezione delle paure dei genitori sul figlio, compromettendo lo sviluppo e l’autonomia.

Da generazioni, la protezione dei genitori verso i propri figli ha fatto i conti con una necessità intrinseca ad ogni ragazzo/a che cresce: ovvero la necessità di delimitare il proprio territorio. Forse perché si sentiva “invaso” o “invasato”?
«L’adolescente marcava il proprio territorio domestico con un bel cartello appiccicato sopra la porta della propria stanza in cui la scritta “NO ENTRY” tuonava il divieto d’accesso, segnalando che all’interno era stato allestito il cantiere dei lavori in corso della crescita, a cui sarebbe stato meglio non assistere» . Oggi la scritta è sostituita con le app di messaggistica che il mondo virtuale riserva: in ogni caso «ci troviamo a rintracciare anche nelle loro stanze – siano essere reali o virtuali – le tracce della sofferenza, della solitudine che sperimentiamo, di un dolore muto, profondo, scomposto».
E allora come coniugare questa richiesta di maggiore autonomia dei nostri figli, con la cura indispensabile che cerca di attuare ogni buona madre e ogni buon padre? Per tentar di dare una risposta occorre attuare una epochè cioè una sospensione della dimensione di cura e di iperprotezione che abbiamo analizzato brevemente, in quanto rischierebbe di influenzarci in una visione troppo soggettiva spesso manipolata da grandi sistemi e provare a tuffarsi nel ruolo della madre alla quale, tra le numerose faccende quotidiane, sfugge ciò che è essenziale agli occhi del figlio.

Scrive Cirillo: «La dipendenza pericolosa per la crescita e lo sviluppo del Sé si istaura nella carenza di legame e attaccamento sperimentato nelle relazioni primarie. I ragazzi sofferenti che incontriamo non riescono a staccarsi e ci parlano così tanto dei loro genitori, quasi che più di tutto il resto, perché non hanno avuto un’esperienza sufficientemente buona di attaccamento che li renda sicuri nell’esplorazione del mondo e nella costruzione del Sé. Restano attaccati nel tentativo di ricevere le cure e le attenzioni che gli sono mancate» .
Si evince dunque quanto sia fondamentale un’esperienza sufficientemente buona di attaccamento che li renda sicuri! «È difficile in un soggetto in età evolutiva che vive e cresce nel nostro tempo trovare una madre e negli adulti che si occupano di lui una dimensione relazionale rassicurante e accogliente, capace di sintonizzarsi con i suoi bisogni e stati d’animo più autentici» . Quante persone dicono che è difficile sintonizzarsi con i nostri ragazzi, ed è vero, ma a loro dico con fermezza che non è impossibile: possiamo dunque accogliere alcuni cardini che possono pacificamente direzionare la nostra opera educativa. In primo luogo è necessario riconoscere un limite che delinea la figura materna e la figura del figlio: «solo partendo da questo presupposto, che a volte può sembrare scontato, ma non lo è affatto, il limiti, il rifiuto, la differenza dell’altro potranno essere accolti non come una mortificazione e una ferita per il proprio Sé, ma come un confine naturale, anche se scomodo, che esiste tra sé e gli altri, tra sé e il mondo».

È vero che spesso diciamo essere un tutt’uno ma non dimentichiamo che sono due creature distinte, capaci di ragione e quindi di autonomia. Di grande riflessione è la testimonianza di un ragazzo durante una seduto di psicoterapia: «io sto nella culla perché per me non è nemmeno pensabile andare per strada e vedere come si affrontano le cose. Io neanche ci penso alla strada della mia vita. Nella culla ci resto per vedere se un giorno arriverà mia madre e si accorgerà di me, non perché lì mi sento al caldo e al sicuro». Non riconoscere il limite, significa legittimare l’invasione che non reca beneficio sia all’uno sia all’altro. Riconoscere il limite non corrisponde ad edificare mura salde con la quale proteggersi e in cui si fatica sempre più ad «accogliere e a stare con l’altro» (p.118) bensì significa «porre fine a questa qualità del legame, indispensabile per la sopravvivenza e l’evoluzione».

In secondo luogo è essenziale «il passaggio dal tener i figli nel grembo a tenerli nella mente» poiché come per un certo periodo della vita il bambino si alimenta solo del latte materno e altro non accetta, così da un certo periodo della medesima vita per vivere ha bisogno di altri alimenti che gli forniscano ciò che gli è necessario e che, il latte solo, non è in grado di fornire. «Quando non riescono a trovare lo spazio nella mente della madre, sono i ragazzi a doverlo predisporre per lei anche a costo di sacrificare sé stessi. Sanno tutto di come funziona la mamma e di come bisogna trattarla, hanno studiato la materia con grande attenzione da quando sono al mondo». Perché è così difficile questo passaggio oggi? «Il vero motivo è che -i genitori– non vogliono farli preoccupare, non vogliono portare al loro cospetto sofferenze da cui hanno imparato da tutta la vita a proteggerli», ma tutto ciò può alimentare quel malessere che spesso intravediamo nel volto dei più giovani: «talvolta guadagnare spazio nella mente della propria madre diventa la ragione profonda del malessere dei ragazzi, persino l’obiettivo dei propri comportamenti disfunzionali». Per una madre tenere nella mente il proprio figlio ha un duplice aspetto simbiotico positivo: da una parte rassicura perché si sente di «essere pensata» e dall’altro proprio in virtù del precedente «aiuta a pensare».

In terzo luogo «per essere capaci di stare da soli e cavarsela è necessario aver potuto godere dell’aiuto dell’altro, tanto da custodirlo dentro di sé come uno scrigno prezioso di affetti, gesti, intenzioni buone di cui si è stati nutriti all’interno della relazione e di cui ci si può nutrire pian piano da soli nel corso della crescita». In una società narcisistica dove è sempre più difficile accogliere l’altro «perché a dominare è il proprio Sé» si svela un drammatico palcoscenico che con dispiacere spesso mi trovo ad osservare: «non smettere mai di mettersi in primo piano». Così la madre, e in ogni caso qualunque figura che svolge un ruolo educativo, «in realtà sta compiendo una campagna di promozione del benessere personale e non di quello del figlio». E allora, sorge spontanea la domanda: «Come fare spazio all’altro, dunque, se non si è mai imparato?». Sento spesso bambini raccontarmi: “io vorrei essere come… quella persona: perché è forte, perché è un mito!” Ma se non guidata questa fragile creatura crescerà nelle dinamiche che abbiamo appena analizzato, senza costruire la sua identità perché assorbita sempre più dall’idolo di riferimento: è urgente passare dal “crescere come” a “crescere con” in una dimensione comunitaria in cui il “noi” forma e plasma “l’io”.
E la figura del padre? «Da molti decenni si parla di crisi del maschile e del paterno, in un orizzonte più ampio di valori e di ridefinizione dei modelli di identificazione di genere», ma, spesso nel silenzio, è proprio lui ad assistere a un triplice e doloroso squarcio: «vedere il figlio soffrire, rievocare proiettivamente le proprie sofferenze e sentire di non poter far nulla per intervenire». L’intervento paterno sarebbe quello non di rifugiarsi nella dolorosa indifferenza, né tantomeno di «tagliare -come spesso erroneamente si attribuisce-, quanto piuttosto quello dell’unire, legare i fili dell’accudimento, della protezione  e della cura».
La strada che abbiamo tracciato permette di «rimettere al centro la crescita» con i momenti di gioia e i momenti di crisi in cui è importante riconoscere il «bisogno di cura, vicinanza e tenerezza che convive con la spinta evolutiva a fare da soli e a rifiutare gli adulti. Questo permette di colmare una mancanza di cui molti adolescenti parlano: «non avere avuto la garanzia di un nido, una base sicura che spinge a muovere i propri passi nel mondo, un porto da cui potersi allontanare e a cui poter fare ritorno». Tutti siamo chiamati a questa responsabilità senza volgere lo sguardo altrove, bensì «nell’auspicabile democrazia degli affetti e dei ruoli».

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