Pratiche dialogiche e scrittura collettiva
Un laboratorio di cinquanta docenti

Cinquanta insegnanti a confronto per acquisire e sperimentare due modelli didattici innovativi: le pratiche dialogiche, da un lato. La Scrittura collettiva della scuola di don Milani a Barbiana, dall’altro. Già questa sembra una novità nel panorama statico della nostra scuola. E se cinquanta insegnanti hanno deciso il sabato mattina di incontrarsi per pensare a quello che si fa in classe e a progettare quello che si potrebbe fare di più, allora “c’è speranza se questo accade in… Brianza”.

La parafrasi dell’opera di Mario Lodi non capita a caso. L’aula magna del liceo “Giuseppe Parini” di Seregno, sabato mattina già alle 8,30 conta quasi 50 fra insegnanti, maestre e anche due dirigenti scolastici. All’incontro in realtà si erano iscritti in 67, e al caffè quel numero ha fatto riflettere, qualcuno lo ha definito un “segnale”. C’è un nuovo interesse che sta crescendo, un bisogno diffuso di cambiamento, un’esigenza a cui mettere mano: questa scuola va trasformata, ma perché succeda va riformata dal basso, dal di dentro, da chi ci lavora. Le riforme istituzionali, scritte da politici o tecnici lontani dalle aule scolastiche, spesso – quasi sempre – falliscono. Le riforme vengono varate, inghiottite, digerite e poi dimenticate dal pachiderma scuola. Tutto continua come prima, nulla cambia. La comfort zone del passatismo alla fine paga sempre. Vanessa Roghi nel suo Lettera sovversiva fa un esempio chiarissimo in questo senso, riprendendo in parallelo il gioco dei bambini “Un, due, tre…. stella”: quando la conta finisce e i bimbi si voltano, tutto appare fermo, immobile, pochissimi hanno fatto passi in avanti e comunque con molta lentezza. Ecco questo – dice la Roghi – è il ritmo della scuola di oggi.

Per questo il monito pronunciato da Gianni Trezzi, dirigente del liceo Umanistico di Seregno, è stato applaudito dalla platea di insegnanti. Se cinquanta docenti, dalla primaria alla secondaria superiore, decidono il sabato mattina di mettersi in gioco per una riflessione didattica, per conoscere e acquisire nuove pratiche e sperimentare di persona laboratori di tecniche, didattiche e pedagogiche innovative, vuole dire che “effettivamente c’è una grande apertura di speranza”. Il filo rosso “intorno al quale ruotano le sperimentazioni migliori”, che li lega al desiderio di ripensare e realizzare “la scuola che sogniamo”, evidentemente si sta tendendo sempre più.
I lavori di sabato scorso sono stati una “concreta” conferma. Un passo che ha dimostrato valore aggiunto anche sotto un’altra dimensione: la ricchezza portata dalla condivisione di esperienze diverse, sperimentazioni realmente in corso. Contaminarsi e scambiarsi pratiche e modelli educativi guardandosi negli occhi, mettersi a confronto sulle diverse esperienze che i tanti docenti stanno mettendo in pratica (magari da soli, nella singola propria classe), “aumenta il carico e la forza di portata dell’innovazione didattica” è stato detto. Il nodo vero è portarli in superficie, condividerli e metterli a sistema, strutturare queste esperienze creando reti di connessione fra le reti di scuole, fondare un ecosistema di cooperazione lungo la linea dell’innovazione. È quello, tra l’altro, che insegna la storia della scuola democratica di questo Paese.
Nel libro Il passero coraggioso, dedicato alla figura di Mario Lodi, sempre Vanessa Roghi ricorda che “il primo elemento imprescindibile che caratterizza la storia della scuola democratica italiana: è una storia collettiva, di maestre e maestri, pedagogiste e pedagogiste che tutti i giorni confrontavano le proprie esperienze”. Con un’aggiunta finale: “Don Milani non sarebbe esistito senza questa rete, non sarebbe esistito Mario Lodi. Barbiana e Piadena sarebbero rimaste due esperienze sconosciute e limitate”.

Ecco quindi il valore dell’esperienza, anche nel suo piccolo e nemmeno timidamente di rottura, di un sabato qualsiasi al liceo di Seregno. “Abbiamo organizzato questa giornata di formazione – racconta Trezzi – proprio per apprendere le pratiche dialogiche e la tecnica della Scrittura collettiva di don Milani. Metterle in relazione fra loro come riflessione didattica. Con un tema conduttore: la “Scuola che sogniamo”. In mattinata gli insegnanti hanno sperimentato il dialogo riflessivo – racconta – e nel pomeriggio, rimescolando i gruppi, i docenti hanno lavorato su quanto “dissodato” nella prima parte dei lavori”.
Pratiche dialogiche e Scrittura collettiva: tra i due approcci molti i punti in comune. Ma prima di essere entrambe modelli didattici “sono soprattutto modalità virtuose di interazione tra le persone – sottolinea Trezzi -; promuovono l’ascolto attivo, un dialogo riflessivo e il confronto generativo in gruppo; affrontano preoccupazioni e rendono possibile il confrontarsi su temi sensibili per l’intera comunità scolastica, dai ragazzi agli insegnanti fino ai genitori, alle famiglie, al territorio. Si lavora con ciò che emerge; non c’è fretta di trovare soluzioni, i tempi sono distesi e il contributo di tutti viene sempre valorizzato. Una sola regola: nessuno viene mai interrotto, rispetto totale di chi parla, rispetto totale del momento dell’ascolto”.
Le due pratiche non si sovrappongono. Sono complementari: ciò che fa emergere la prima (nella pratica dialogica e riflessiva) secondo un alternarsi fra ascolto e dialogo di pensieri e riflessioni, la seconda tecnica (la scrittura collettiva) lo struttura in un pensiero elaborato, profondo e condiviso, a cui tutti hanno contribuito lungo un processo e un tempo distesi, in cui nessun pensiero è stato escluso. Tutti nel testo finale ritrovano la propria riflessione.
Trezzi ha introdotto i lavori con una spiegazione, storica e didattica, della pratica dialogica, con i suoi sette principi (qui si può trovare e scaricare la documentazione). Una pratica mutuata dalla disciplina pschiatrica (seconda metà del Novecento) e poi “esportata” nelle organizzazioni complesse, fra cui la scuola. Ascolto, sospensione del giudizio e arricchimento i tratti portanti. Avvengono “prima parlando, poi ascoltando. Non ci sono tensioni per risolvere problemi – qualcosa cioè di ben identificato -, ma per affrontare e analizzare le “preoccupazioni” – ciò che invece continua a togliere energia e risorse”.

Due i punti di valore per la persona: il momento dell’ascolto e la ricchezza che deriva dall’essere ascoltato. Il centro di questo circolo virtuoso dentro uno “spazio tra”, in cui si crea la tensione dialogica e che porta alla scrittura collettiva non è mai il prodotto finale, ma il processo. E anche la valutazione, il processo valutativo si sposta dalla meta alle singole tappe del viaggio “accettando così il rischio dell’incertezza – precisa Trezzi -, e inevitabilmente aprendosi alla moltitudine”. È il percorso ciò che conta di più.
Esattamente come nel processo della scrittura collettiva, “esperienza di scuola unica più che rara, in cui si sperimenta e si crea tantissimo”.
Arianna Gelfi, Elide Panzeri, Emanuela Leoncini, Cristina Mauri, Elena Bagini e Rosaria Di Gaetano sono state le insegnanti della Rete di scuole “Barbiana 2040” (barbiana2040.it) che hanno coordinato la seconda parte dei lavori della giornata, dedicata ai laboratori di scrittura collettiva.
Nei laboratori, i docenti divisi in gruppi hanno portato al centro della scrittura le riflessioni emerse dalle pratiche dialogiche: la valanga di pensieri sulla “scuola che sogniamo”. Obiettivo: scrivere un testo propositivo partendo dai “pensieri” di ciascuno fissati sui fogliolini. Un testo condiviso, elaborato, metabolizzato e democraticamente rispettoso dei principi dell’ecologia del pensiero. Ma è qui che – per una volta, almeno – anche i docenti hanno capito il valore della Skolè, della necessità di una scuola distesa, capace di pensiero lungo, di ricerca che passa passando dall’acquisizione di nuova conoscenza.
Prima di “costruire” la nuova scuola, la scuola dei sogni (e forse anche un po’ utopica), tutti i docenti sono passati dal mettere a nudo (anche sfogandosi) ciò che non funziona nel fare scuola oggi. La dimensione diventata insopportabile (è la denuncia di tutti), il peso che soffoca ogni libertà di insegnamento è la tenaglia oppressiva della burocrazia. Toglie energia anche emotiva, cancella spazio vitale e determinante per la progettazione didattica, che ormai è ridotta al minimo. Non consente una scuola serena nemmeno per gli insegnanti, figuriamoci per gli alunni e studenti. “Vogliamo una scuola che non giudichi, ma che liberi creatività” (Cecilia); “che sia una scuola aperta, interconnessa con le esperienze didattiche verticali per ordine e grado di istruzione”.

Una scuola che “dia centralità, valore e densità semantica alla parola, aperta a ogni corpo intermedio del territorio e a osservatori esterni intesi come soggetti portatori di ricchezza e punti di vista plurali” (Elena). Ma la scuola oggi è anche “troppo faticosa, ingabbia, spesso non riesce a esprimere una visione nemmeno attraverso i suoi dirigenti” (Patrizia). Se la scuola dei sogni non esiste, “allora tocca a noi cambiarla: mettendoci in gioco e trasformandola per arrivare a considerare i bambini come i veri e primi nostri datori di lavoro. E che abbia la relazione umana come unico albero di trasmissione della conoscenza” (Elide). E allora “basta alibi per non fare, basta prendersela con la scuola brutta, con la dirigente assente, con le colleghe scontrose: usciamo da una scuola gattopardesca che inghiotte riforme e che poi continua a fare la stessa scuola di sempre. Insegnanti che accolgono e praticano buone pratiche ce ne sono, lavoriamo con loro e diventiamo educatori, facciamo gli “in-segnanti”, lasciamo il segno nei nostri ragazzi” (Elena).

È solo un primo giro di riflessioni, una insufficiente e debitoria sintesi, moltissimi i testi scritti sui moltissimi fogliolini. Ma la scuola invocata, la fucina di sperimentazione che hanno in mente ed espresso tutti i docenti può essere una realtà: forse già esiste. La rete Barbiana 2040 di Edorado Martinelli, il Movimento di cooperazione educativa di Franco Lorenzoni, la rete di scuole “Senza etichette”, le pratiche dialogiche di Gianni Trezzi, ma fino ad arrivare ai Quartieri spagnoli di Napoli dentro le classi del Progetto Chance di Carla Melazzini e Cesare Moreno, fino al modello di buona scuola di Rachele Furfaro sempe nel centro di Napoli o della prima scuola popolare di Ciro Corona nel cuore di Scampia dentro alle Officina della Cultura. Tutte esperienze emblematiche sotto il profilo della ricchezza e dei valori educativi e paradigmi innovativi: inclusione, lotta alla dispersione, miglioramento soggettivo, contrasto al disagio e alla fragilità, costruzione di opportunità e di un futuro.
Il salto necessario emerso dall’incontro di Seregno è iniziare a riconoscere l’urgenza (oltre alla necessità) di organizzare queste reti di scuole, in un’unica rete a maglie strette di collaborazioni e scambio di esperienze. E come c’è scritto nella prima pagina di Lettera a una professoressa, “questo libro è un invito a organizzarsi“.
E’ possibile scegliere da dove partire. Il suggerimento potrebbe essere di iniziare dal testo di scrittura collettiva messo a punti dai docenti che hanno predisposto nel gruppo 3 dell’incontro di Seregno, coordinato da Cristina. Ecco il “loro” testo. Ecco il loro invito, un buon punto di partenza.

A tutte le bambine e a tutti i bambini
Chi fa la scuola?
L’alleanza tra tutte le persone coinvolte, grandi e piccole.

Perché si fa scuola?
Per crescere insieme, per abituare al bello, perché la bellezza rimane ed educa,

per coltivare benessere e bellezza nel corpo
e nella mente per tutte le persone: creare il benessere
di tutti prevede la cura dei bisogni e degli spazi.
Ciò che è inestetico (non è bello)

ci anestetizza (rende insensibili).
Come si fa scuola?
Innanzitutto con autenticità, con tempi distesi,
con I tempi necessari

Testo gruppo di lavoro N.3 – Seregno 28/10/2023

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